Una Manciata di Ulive

 

Non lontano da casa mia c’era una piccola abitazione composta da un minuscolo cortiletto dal quale si accedeva ad un’unica stanza a tetti e ad una piccola cucina buia ricavata in un sottoscala; dietro un altro cortiletto occupato per metà dalla scala della terrazza. Vi abitava “cummare” Cuncepita, una donna simpatica, aperta e sempre sorridente. Era l’immagine della salute e della maternità. Aveva sei figli, tutti piccoli, nati uno dietro l’altro. Qualcuno era sempre aggrappato alle sue gonne e lei se lo portava dietro piagnucolante, mentre tra le braccia stringeva l’ultimo nato, attaccato al suo prosperoso seno. Il marito era l’unico a lavorare e tiravano avanti malamente. ’Ntoni faceva lo spaccapietre ed era un lavoratore instancabile: lo si trovava sulla strada sempre, anche se il sole era cocente, la pioggia fitta, il freddo di neve. Ma un brutto giorno tornò a casa febbricianfe e con una tosse più insistente del solito. Dovette mettersi a letto e ne ebbe per parecchio.
La povera Cuncepita era disperata, non sapeva come sfamare i suoi piccoli. Tutto il giorno andava in giro per il paese per offrire aiuto a chi ne avesse bisogno e in cambio si accontentava di un pugno di farina o di una “pignata” di legumi. Un giorno non aveva racimolato neanche quella e pensò di andare in campagna a raccogliere “cicoreddhe”. Per non andare sola, passò da mia madre nella speranza che si unisse a lei.

– “Nunna Bundanzia, scià ccugghimu cicureddhe”? –
– “None, cummare, aggiu ddumatu pe’ lu cofinu”-.
– “Allora, statte bbona”!
– e se ne andò veloce perchè aveva premura di tornare presto.

La giornata era bellissima, il sole tiepido, l’aria profumata, poche nuvole attraversavano un cielo terso spinte da un venticello sottile e delicato. Si avvicinava la primavera, ma Cuncepita non se ne accorgeva. Guardava per terra, cercava le cicorie. Era espertissima e le riconosceva anche se intrecciate con altre erbe. Con un coltello tagliente le recideva alla base lasciando intatto il ciuffo di foglie e la radice nel terreno. Agiva con un colpo netto: infilava il coltello dalla punta nella terra, tagliava e, con la stessa mano prendeva la cicoria dalla chioma, la sbatteva per far cadere la terra e la passava nell’altra mano; quando la mano non ne poteva contenere più le metteva nel sacco premendole ogni volta perchè ne entrassero molte. In brevissimo tempo il sacco fu pieno e con la corda che era fissata ad una cocca, ne legò l’apertura. Mise poi il sacco in spalla e prese la via del ritorno. Camminava china sotto il peso del fardello, ma i suoi pensieri pesavano di più. La strada passava veloce sotto i suoi piedi nudi e pensava: i piccoli per quella sera avrebbero avuto le cicorie, e poi domani? e doman l’altro?…
Ad un tratto il suo sguardo fu attirato da tanti punti neri sulla strada bianca di tufo. Erano ulive, cadute dall’albero e non raccolte…erano sulla strada…; ma anche se sulla strada erano del padrone!
Rallentò sempre di più il passo, sollevò un po’ la testa e si guardò in giro…non c’era nessuno. Ma anche se non erano del padrone, non erano sue!…
Continuò spedita sui suoi passi, ma ormai l‘idea le ronzava in testa. Dopo un po’ di strada ne vide un bel mucchio riunite nella carreggiata. Si fermò di botto, senza neanche guardare in giro, si tolse il fazzoletto dalla testa, ne mise dentro una manciata, lo nascose furtiva sotto il grembiule e riprese veloce la strada: avrebbero accompagnato il pane almeno per dargli un po’ di sapore.
Era contenta, ma arrivata in paese, la gente, il palazzo del padrone che sovrastava le piccole case degli umili, la chiesa, forse più la chiesa che altro, la fecero tornare in sè, incominciò a sentire scrupolo e anche rimorso. Invece di andare a casa passò di nuovo da mia madre, la quale appena la vide atteggiò la bocca a sorriso e disse:

– “Le ccugghisti”? –
– “Nci nd’eranu”! – rispose lei e poi non disse niente, ma stava lì.
Mia madre si muoveva di continuo per servire lu “cofinu” che aveva bisogno di assistenza.
***
“Lu cofinu” lo faceva ogni tanto, quando aveva tempo e quando aveva riunito molta biancheria sporca. A volte la biancheria era tanta che allungava la bocca “de lu cofinu” infilando lungo i lati delle tavole che dovevano reggere “lu ncinniraturu” pieno di candida cenere passata al setaccio. “Lu cofìnu” veniva sistemato su una pietra perchè dalla parte inferiore aveva un’apertura dalla quale doveva uscire la “lessia”. Questa era l’acqua che si versava bollente sulla cenere, passava poi attraverso la biancheria insaponata e infne usciva dall’apertura nel fondo e veniva raccolta da “lu limbo” che precedentemente era stato sistemato sotto. L’acqua bollente si versava “cu lu vacaturu” e le “vacate” dovevano essere sempre in numero dispari. Queste aumentavano secondo lo sporco o la quantità della biancheria. Dopo l’ultima “vacata”, si ostruiva l’apertura per lasciare raffreddare “lu cofinu” con la “lessia”. Durante tutte queste operazioni le porte dovevano stare chiuse perchè “lu cofinu” poteva “scattare”. Il giorno dopo la biancheria veniva sciacquata più volte e stesa al sole. Il profumo di quel bucato era particolarissimo e inconfondibile: impregnava la casa e la biancheria e profumava i tiretti.
Ricordo un particolare: mia madre con la “lessia” si lavava i capelli che poi asciugava seduta al centro del cortile al sole: diventavano lucidissimi!

***

Mia madre aveva appena versato l’ultima “vacata” quando si girò e vide ancora sulla porta “cummare” Cuncepita che, estraniata, seguiva meccanicamente i suoi movimenti. Credeva fosse andata via, ma dopo un attimo di disappunto le si avvicinò lentamente. Con le dita sollevò una ciocca di capelli che si era attaccata sulla fronte sudata e senza mai distogliere gli occhi dall’amica, asciugandosi le mani sul grembiule prima dai dorsi e poi dai palmi, le si avvicinò ancor più e con sguardo indagatore e interrogativo, quasi a soppesare i suoi veri pensieri, indipendentemente da quanto le avrebbe detto, chiese ansiosa:

– “Ohimmena, ce hai”? –
– “Nu ssacciu”… – rispose Cuncepita e aveva paura di dire.
Poi, a strappi e a stenti, lacrimando, le confidò quello che aveva fatto. Mia madre, sgranò gli occhi dallo stupore: era una cosa che non avrebbe mai dovuto fare!
– “Vanne” – disse, indicandole la porta con la mano alzata in segno drammatico –
“Vanne alla chiesa, nci lu cunti all’arciprete, viti ce te dice, Matonna mia, vanne. Ohimmena, lu Signore perduna tutti, mo dici ca nu perduna a tie”? –
“Cummare” Cuncepita non se lo fece dire due volte e corse in chiesa.
Era quasi mezzogiorno. Incontrò Don Gino sulla porta: –
“Don Ginu” – disse – “vulia me cunfessu”! –
– A quest’ora? – rispose – Torna questa sera.
Tornò la sera ma le mancava il coraggio di parlare. La chiesa era piena di donne e sentiva gli occhi di tutte su di sè.
Ebbe coraggio il giorno dopo a messa prima.
– “Don Giunu…pigghiai”… – e la voce le tremava.
– Che cosa? – rispose subitamente Don Gino pensando al peggio.
– “’Na fraccata de volie”…
Don Gino si passò la mano sulla fronte rinfrancato e accasciandosi leggermente sul sedile disse: – Vai con Dio, figlia mia, i tuoi figli ti aspettano
– Ma, Don Ginu! – replico lei con le lacrime agli occhi.
– Vai – insistette benevole uscendo dal confessionale – non ci pensare più. Dio capirà! –
Concepita torno a casa perplessa, ma acquetata dalle parole del sacerdote.
***
Da vecchia ormai svanita, ripeteva a tutti la sua disavventura.
Non molto tempo fa, la ridisse anche a me dimenticando di avermela raccontata altre volte; e a me e venuta l’idea di scriverla per perpetuare un sentimento di profonda e sentita onestà, proprio della nostra gente, spesso offuscato dalla miseria e dal bisogno.

Drosiana invece, amareggiata per essere stata la causa sia pure involontaria della terribile disgrazia, preferì allontanarsi per sempre da tutto e da tutti e si chiuse in convento.

Tratto da: “Il tempo non cancella” di: Angiolino Cotardo

Questo tasto è disabilitato!