L’ultimo giorno di scuola, prima delle vacanze natalizie è un giorno di allegra confusione; i ragazzi vivono uno stato di euforia che contagia gli insegnanti che partecipano tollerando il chiasso e la spensieratezza giovanile. Quell’anno 1941, il secondo di guerra, fu particolare. Io ed alcuni compagni, benché giovanissimi, avevamo ricevuto la “cartolina precetto” per la chiamata alla leva con un certo anticipo “per esigenze di carattere occasionale”. Io ero il più giovane, appartenevo, sì alla classe 1922, ma ero nato il 26 dicembre e per… cinque giorni subii la sorte dei compagni nati in quell’anno. In quell’ ultimo giorno di scuola, prima delle vacanze natalizie, a fine lezione, il preside, i professori, i compagni ci vollero salutare. Tutta la scuola si riunì nel corridoio degli Eroi e un giovane professore, anche lui richiamato e già in divisa di tenente, tenne un breve discorso esaltando la guerra, il Duce e il valore dei nostri soldati che avrebbero condotto la nostra Patria a una splendida vittoria. Il discorso si chiuse con battimani, inni patriottici e saluti al Duce. Noi eravamo fieri di servire l’Italia in armi. Non avevamo ancora vent’anni e non capivamo che la guerra è fatta di morti, di sangue e di immani fatiche. Poi il preside ci invitò nella saletta della presidenza e chiuse la porta. Volle salutarci personalmente. Non disse belle parole come il professore-tenente ma semplicemente ci augurò di tornare presto nei banchi a riprendere gli studi interrotti. Poi ci strinse la mano ad uno ad uno. Lui, sempre severo, quasi burbero, in quel momento sembrava stanco e invecchiato. Stringendoci la mano, provocò in noi imbarazzo e commozione: quel commiato poteva essere un addio. Anche a casa l’atmosfera era insolita. Mia madre cercava di preparare i cibi natalizi come nei tempi di pace, anzi, sembrava più indaffarata del solito. Parlava di tutto meno della mia partenza, ma non mi guardava negli occhi per non commuoversi. Mio padre, invece, era divenuto più silenzioso e più pigro e lo vedevo spesso seduto a fumare preso da tristi pensieri. La radio ogni giorno trasmetteva i bollettini di guerra. Si parlava di guerra-lampo che sarebbe finita, come diceva Mussolini prima dell’estate. Io, euforico, preparavo la mia partenza. Tra la roba misi anche i libri di scuola, sicuro di poter studiare e tornare in tempo per gli esami di abilitazione. Mio padre scuoteva la testa. Lui la guerra l’aveva conosciuta. Partito nel 1915 per la Grande Guerra, alla mia stessa età, aveva vissuto per tre ani nelle trincee, poi le schegge di una bomba gli avevano dilaniato le carni delle gambe. Ricoverato in ospedale, il chirurgo non aveva potuto asportare tutte le schegge e camminava a fatica e spesso, quando l’aria era umida, le schegge rimaste nella carne lo facevano soffrire terribilmente. Solo i miei fratelli mi guardavano silenziosi e ammirati. I giorni di festa passarono in un clima di attesa che gravava sull’ambiente, rendendolo irrespirabile e fui quasi contento, quando mi svegliai la mattina del 21 gennaio, giorno della partenza. Era una giornata piovigginosa e monotona, mia madre era già alzata e aveva preparato le mie cose, ma volle dare un ultimo sguardo: ripiegò, ordinò, quasi accarezzò quella biancheria che aveva voluto che fosse nuova ed io sapevo che l’aveva fatta confezionare facendo gli ultimi sacrifici per me. Il commiato da lei fu difficile. Mi baciò, poi prese dalla tasca del grembiule un sacchettino di panno appeso ad una cordicella e me lo appese al collo. Cercai di scherzare: -Che c’è dentro?- dissi e con febbrile rapidità lo aprii e vidi una crocetta inargentata, la baciai e la strinsi al mio pugno. -Figlio- mi disse con gli occhi pieni di lacrime questa crocetta era di tua nonna e per questo a me è tanto cara; ti proteggerà dalle malattie e dalla guerra-. Mi abbracciò, poi mi scostò da lei e: -Riportamela- disse scoppiando in lacrime e, spingendomi fuori dalla porta, continuò: -Vai, vai… . La crocetta mi protesse veramente, ma in prigionia mi fu strappata senza motivo dai tedeschi e gettata al fuoco. Mio padre volle accompagnarmi. Giunti a Lecce, per la via incontrammo giovani chiamati come me accompagnati da parenti. Sull’ingresso del Distretto Militare capeggiava un enorme telo con la scritta: “L’esercito vi accoglie giubilante nel nome del Re e del Duce”. Un breve saluto del Colonnello Comandante e, preparato il bagaglio, via di corsa alla stazione ferroviaria per raggiungere il reggimento al quale eravamo stati assegnati. Mio padre mi abbracciò, sembrava volesse trattenermi, feci forza per staccarmi da lui. Piangeva, era la prima volta che lo vedevo piangere: si sentiva impotente a difendermi da quell’inferno, come lui diceva. Salii sul treno. A vent’anni non spuntano le lacrime… . Si soffre dentro, ma non si piange! Poi il treno fischiò, si mosse lentamente, si allontanò dalla stazione mentre i familiari delle reclute continuavano ad agitare i fazzoletti. E cosi partimmo, come tanti, e con sulle spalle la valigia dei sogni giovanili stroncati, storditi dall’entusiasmo provocato da anni di propaganda, inconsapevoli di quanto accadeva.
Tratto da: “Stralci degli anni miei” di: Angiolino Cotardo |