Un tempo il nostro paese era formato da casette a tetti, povere e linde, bianche di calce strette attorno ad una piccola piazza quadrata, dalla quale si snodavano strade e vicoli polverosi che si perdevano nelle campagne. Attorno il panorama era, com’ è tuttora, arido:ovunque pietre che paiono sgretolarsi per l’ arsura: una terra senza pietà per chi lavora, senza dolcezza per chi guarda. Sopra di essa un cielo azzurro, troppo azzurro, che si trasforma in violetto e arancio al tramonto, quasi a compensare la mancanza di colori della terra bruciata.
Non lontano dall’ abitato in un leggero rialzo del terreno era situata una masseria abitata da massaro Peppe e dalla sua famiglia. La masseria era meta delle mie passeggiate dopo lo studio perché mi piaceva parlare col massaro. Era un uomo intelligente, all’ antica, che aveva ricavato la sua saggezza da esperienze personali sofferte e subite.Amava raccontare dei tempi passati e io lo ascoltavo affascinato, poiché con le sue espressioni e considerazioni pacate riusciva ad allontanarsi dalla realtà per immedesimarsi totalmente in fatti e situazioni d’ altri tempi. Parlava lentamente con gli occhi socchiusi, quasi a rivivere quanto diceva. A volte la memoria lo tradiva e ricordo il mio incalzare con le domande perché non venisse meno a quell’ incanto. Una sera inforcai la mia vecchia bicicletta per salire alla masseria. L’ aria era calda e profumata di erbe secche e di paglia: ebbi la sensazione che l’ estate si avvicinava. Trovai il vecchio massaro seduto sul muretto che circondava l’ aia con la sua inseparabile pipa; riposava in attesa della cena. Mi salutò con simpatia perché sapeva che con me poteva parlare e raccontare, sapeva che lo avrei ascoltato con interesse perché ero uno dei pochi ragazzi che, in quell’ epoca, si recava in città a studiare, e lui era un uomo intelligente e aperto. Quella sera aveva voglia di parlare. Gli argomenti si aggiravano sempre sulla povertà della terra e mi spiegò perché aveva soprannominato il paese “terrasecca”. Diceva: – Castrignano dei greci é un nome bello e antico, ma terrasecca è più appropriato a questa terra arida e ingrata. Detto questo, però, ricordo, rimase penoso per un pò, poi, sfiorò con lo sguardo la campagna circostante come per una carezza, per farsi perdonare le espressioni malevole di poc’ anzi, e continuò: – Ma ci ha dato sempre il pane e, anche se a volte è stato poco, è sempre bastato a sfamare e a far sopravvivere la povera gente -. Ancor oggi dalle nostre parti il pane è l’ alimento principale: non c’ è “tavola” se non c’ è pane, ma un tempo era il solo sostentamento per tutta la famiglia. Per i più piccini diventava “cucineddha”: si spappolava in acqua calda insaporendolo con una foglia di alloro e una “croce” di olio. Per i grandi, invece, c’ erano le frise “ggiustate” (friselle), condite con pomodoro fresco d’ estate e della “penda” d’ inverno,origano e la solita “croce” di olio. Ma la festa più grande era quando si accendeva il forno per cuocerlo. Tutta la famiglia era mobilitata: chi trasportava “sarcine” (fascine di fronde secche), chi faceva pulizia, chi preparava “tavle” (tavole), e chi “cùfine” (un tipo di “cesti”). E poi era bello, specialmente nei giorni freddi: si era utili al caldo. Ed era quasi un giustificare la pretesa di scaldarsi quando fuori c’ era tanto lavoro da svolgere. Il pane usciva bruciante dal forno e la fornaia, rossa in viso perché avvampata dalla brace, era felice soprattutto quando la “cotta” era ben riuscita: il pane era a punto giusto, né crudo, né bruciato. Allora tutti lo assaggiavano e per quel giorno “il mangiare” era assicurato. Poi i giorni passavano e il pane induriva anche se conservato nelle “capase” (un tipo di contenitore in argilla), ma veniva consumato fino all’ ultima briciola. Le contadine, per utilizzarlo, si sbizzarrivano per variarne il sapore. Lo facevano a “pitte”, cioè fritto a pezzetti per accompagnare i resti della “pignata di piselli” (pignatta di piselli) avanzata dal giorno prima, oppure a fette e lo insaporivano con aglio o pomodoro e “rucola di campagna”. (che ora è la famosa bruschetta). Durante le sere d’ inverno, invece, “lu rrustianu sulla furnizza” (lo arrostivano sulla brace), per accompagnare la “sciotta”: erbe di campagna cotte in acqua con un pò di olio. E infine un ricordo molto triste, ma significativo: quando gli ultimi pezzi di pane per difetto di cottura o per l’ umido cominciavano a “mputrunire” (imputridire) si dovevano mangiare ugualmente; allora le mamme per invogliare i piccoli dicevano che, se lo avessero mangiato, nella loro bocca sarebbero spuntati i denti d’ oro. Queste e altre cose mi raccontava massaro Peppe e lo faceva con gusto, quasi ad assaporare quanto diceva. A volte, ricordo, era talmente verace che riusciva a trasmettermi le sensazioni. Una volta diventò improvvisamente triste e penoso e, con un soffio di voce, quasi parlando a se stesso disse: – Ma noi anche se costretti ancora oggi a strappare un pò di terra alle pietre per piantare il grano, noi siamo legati alla nostra terra e non l’ abbandoneremo mai -. Annuì senza parlare: lo capivo nell’ anima perché come lui sentivo grande amore per questa nostra terra “arida e ingrata”. * * * Un’ altra sera arrivai alla masseria nel momento in cui massara Tiresia si era affacciata alla porta per dire che “era pronto”. Appena mi vide abbozzò un affettuoso e accogliente sorriso. Come tutte le contadine era pronta ad offrire all’ ospite, spontaneamente, la sua casa e il suo cuore. Aveva un fare materno che esprimeva con tutta se stessa nella disponibilità e remissività verso gli altri. Mi invitò a mangiare con loro, perché, disse “ave pè tutti!” (c’ e per tutti) – Entrammo. Attorno alla tavola era già riunita la numerosa famiglia, aspettavano il padre per fare tutti insieme il segno della croce. Dopo, massaro Peppe tagliò il pane e lo distribuì ai figli e ai nipoti. Massara Tiresia versò quanto aveva preparato nell’ unico grande piatto di terracotta posto al centro del tavolo quadrato, senza tovaglia nè tovaglioli. La prima cucchiaiata spettava al padre, poi i figli irruppero con movimenti rapidi e invadenti. A mano a mano che la minestra diminuiva rallentava il ritmo dei cucchiai, finché massaro Peppe, con atto quasi sacramentale, con l’ ultimo pezzo di pane raccolse i resti della minestra dal fondo e dai lati del piatto, facendone parte ai più piccoli che venivano imboccati come uccellini. Una fetta di formaggio e un bicchiere di vino completarono il pasto. Dopo massaro Peppe, come ogni sera, si fermò a chiacchierare con i figli: li ascoltava e per ognuno aveva un consiglio o un ammonimento. Nel levarsi da tavola, la baciò con lo stesso atteggiamento con cui il sacerdote bacia l’ altare. Faceva caldo e andammo a sedere sul solito muretto. Massaro Peppe riaccese la pipa e, girandosi verso di me, quasi a riprendere un discorso sospeso, parlò: – Noi contadini siamo rassegnati e nello stesso tempo viviamo di speranze -. Massara Tiresia, ferma sulla porta, aveva ascoltato e con fare serio e convinto si intromise: – “Avenu ddhai le speranze nosce!”(sono lì le nostre speranze) – disse e indicò la cappella dell’ Arcona, Madonna bizantina, alla quale tutti si rivolgono con fede e speranza. Una nipotina, la piccola Gina, colse l’ espressione della nonna e continuando a giocare con la sua “pupa di pezza” composta da uno straccio e due canne, intonò una cantilena lasciandosi cullare dalle sue stesse parole:
Matonna te l’ Arcona ci na campagna stai veni a casa mia e rimeddiame sti gguai. Se tu nu ppoi venire manda l’ Angelu a venire e se l’ Angelu nu vene, veni tie e famme stu bbene.
Massaro Peppe accarezzo la piccola e facendola sedere su una delle ginocchia disse, quasi a se stesso: – Questa è la prima preghiera che i bambini imparano dalle mamme -. Poi rivolto a me : – E tu la sai? – Io assentii, mentre il pensiero mi portava lontano: la nenia mi era familiare, ma era familiare anche a mia madre e a mia nonna. Cercavo di capire: da quanto tempo veniva recitata? E chi l’ aveva composta? Forse nessuno, forse era sorta spontanea da un cuore semplice in un momento di drammatico bisogno e poi tramandata per secoli a testimoniare la fede semplice e incontaminata della povera gente. Mi avviai quasi senza pedalare, perché la bicicletta andava da sé lungo la discesa. Mi venne spontaneo guardare ad occidente e ripetere a fior di labbra: Madonna Arcona Mia… Intanto il sole calava dietro la chiesetta da dove giungevano i rintocchi della sera. Tratto da: “Il tempo non cancella” di: Angiolino Cotardo |