Regio istituto magistrale “Pietro Siciliani”

La mia decisione di diventare maestro maturò negli anni dell’adolescenza, frequentando un istituto dove si richiedevano attitudini pratiche che io non possedevo, poiché mi appassionavano gli studi umanistici. Fui consigliato dagli stessi professori a cambiare scuola e, con un esame integrativo, passai dalla scuola di Avviamento al lavoro di Maglie al Regio Istituto Magistrale “Pietro Siciliani” di Lecce. La distanza e la città, preoccuparono non poco i miei genitori, ma nello stesso tempo mia madre pregustava l’orgoglio di avere un figlio maestro. In paese, allora, il maestro godeva grande prestigio. A Lecce si andava col treno; e da Castrignano per raggiungere la più vicina stazione ferroviaria si dovevano percorrere tre chilometri, quasi sempre a piedi. Il treno impiegava molto tempo ad arrivare in città per le fermate alle numerose stazioncine dei vari paesi, seminati lungo il percorso, per raccogliere studenti, mercanti, massaie. Arrivati a Lecce, si doveva percorrere un lungo viale alberato e poi una via tortuosa che conduceva nel cuore della città, dove finalmente si raggiungeva la scuola. L’istituto Magistrale era situato nel vecchio convento dei Teatini al centro della città in via Vittorio Emanuele. L’ingresso immetteva in un lungo corridoio dalle alte volte, illuminato da ampi finestroni. In fondo c’era una scala a tre rampe che portava al primo piano; sull’ultimo pianerottolo si incontrava una grande pittura muraria, antica quanto il convento, che rappresentava Maria piangente con Gesù morto sulle ginocchia. Da una grande vetrata, poi, si accedeva nei corridoi del primo piano. Il corridoio di fronte portava alla presidenza, su quello a destra, invece, detto “degli Eroi” poiché lungo i muri vi erano appesi quadri raffiguranti personaggi ed episodi eroici del Risorgimento e della Grande Guerra, si aprivano le aule che non erano altro che celle dei monaci adibite ad aule. Queste due diramazioni si affacciavano attraverso grandi finestre in un cortile quadrato chiuso, ed erano, quindi, due dei quattro lati del chiostro. Le classi allora erano rigidamente divise in maschili e femminili. Le studentesse entravano del portone principale (quello poc’anzi descritto in via V. Emanuele) e occupavano le aule che davano su due lati del chiostro, noi maschi, invece, entravamo da un ingresso secondario, in una viuzza tortuosa, che costeggiava il lato posteriore dell’edificio. Le classi maschili e quelle femminili si incontravano nel “Corridoio degli Eroi” solo nelle grandi occasioni: commemorazioni, discorsi, notizie importanti. Noi, maschi, raggiungevamo il corridoio in fila per due, guidati dagli insegnanti. Eravamo molto ordinati e, d’abitudine, ci comportavamo bene. Trovammo le ragazze già in fila da un lato del corridoio e noi ci sistemavamo dalla parte opposta. Non c’era nessuna possibilità di comunicare con le ragazze, ci si guardava, ci si sorrideva appena e più niente. Qualche timido approccio avveniva all’uscita della scuola. Ricordo che, appena suonava la campanella, ci precipitavamo dalle scale per correre al portone principale da dove uscivano le studentesse. La via V. Emanuele era stretta e a quell’ora sempre affollata, soprattutto di studenti del vicino Liceo Classico che venivano anch’essi ad aspettare le ragazze del Magistrale, considerate la più carine della città. Carine? In verità bisognava indovinarlo: avevano il viso senza ombra di trucco, i capelli senza piega né taglio e poi erano ingoffate in lunghi grembiuli neri sui quali spiccava l’unica nota frivola: il collettino bianco ricamato. Di quegli anni ricordo poche cose, forse troppo poche. Li ho vissuti impegnandomi nello studio con non pochi sacrifici e con una volontà caparbia, avendo davanti a me sempre la meta dell’ambito diploma. Erano gli anni in cui venivamo imbottiti di ideologia fascista. I professori passavano con la più grande facilità, volutamente e doverosamente, dall’argomento che li competeva a quello politico per esaltare il Duce e il Fascismo. Insegnanti e alunni dovevano accettare senza dialogo; d’altronde tutti conoscevamo una sola strada: quella luminosa tracciata dal Duce che ognuno di noi doveva percorrere, come lui indicava e come era stampato a caratteri cubitali su tutti i diari scolastici “inflessibilmente”. Cosa pensassero effettivamente i professori che portavano all’occhiello il distintivo fascista, la cui mancanza faceva rischiare la perdita del posto, non lo so. Certo è che la pressione della dittatura nella scuola diventò, alla vigilia della seconda guerra mondiale, soffocante, tanto da rendere i professori, nella maggior parte, noiosi e opprimenti. Per evadere da questo clima e per soddisfare la nostra insaziabile curiosità facevamo circolare fra i banchi letture proibite come le novelle del Boccaccio o Mimì Bluette di Guido da Verona. I miei insegnanti erano tutti uomini e una sola donna: la professoressa di disegno. Era alta, magra e un pò avanti negli anni; aveva i capelli nerissimi raccolti dietro la nuca e le labbra e le unghie dipinte di rosso fuoco. Veniva da Firenze e il suo comportamento rivelava le caratteristiche della sua raffinata città e dell’arte in cui si era formata. Era impassibile e distaccata quasi chiusa nel suo mondo, ma col suo accento toscano e il suo linguaggio appropriato, ricco e perfetto, ci incantava. Le volevamo bene, ma soprattutto l’ammiravamo, anche se qualche compagno impertinente negli intervalli imitava il suo accento e il suo fare disegnando alla lavagna la sua figura longilinea. Nell’anno scolastico 1941/42, mi iscrissi al terzo superiore, ultimo del Magistrale. Ormai la meta era vicina; sarei diventato presto maestro! Ma un brutto giorno, eravamo ai primi di dicembre, tornando a casa stanco, ma con uno stato d’animo spensierato e allegro, vidi mio padre, cosa insolita, che mi aspettava sulla soglia di casa. Mi avvicinai sorpreso col presentimento di una cattiva notizia. Mio padre, senza parlare mi porse una cartolina: era la cartolina precetto che mi invitava a presentarmi al Distretto Militare di Lecce il 12 gennaio, soldato di leva, chiamato alle armi. Rimasi annientato, non tanto per la guerra, poiché la propaganda pressante ci aveva resi tutti euforici ed entusiasti, pronti a partire, quanto per la delusione di dover lasciare la scuola, che tanto mi era costata di sacrifici e limitazioni, proprio al momento della realizzazione di tutti i miei desideri.

Tratto da: “Stralci degli anni miei” di: Angiolino Cotardo

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