Una notte i bombardamenti furono accaniti e pressanti ed era stato preso di mira il campo. Fu colpita “Hoesch Fabrik” dove c’erano gli alti forni, furono colpite le baracche nulla rimase indenne. Noi, impazziti, correvamo disordinatamente in tutte le direzioni in cerca di qualcosa che potesse proteggerci. La luce delle esplosioni rendeva più sinistro il paesaggio coperto di neve. Assieme ad un carabiniere sardo, rasentai il lato di una baracca nel tentativo di raggiungere un mucchio di rifiuti, quando, improvvisamente, poco lontano, cadde uno spezzone incendiario e una luce violentissima mi abbagliò: mi trovai avvolto dalle fiamme e istintivamente tentai di portarmi le mani agli occhi, ma caddi sulla neve. Il viso e le mani mi bruciavano e il contatto con la neve mi procurò un dolore lancinante. Tentai di sollevarmi sui gomiti, ma ricaddi svenuto. Anche il mio amico cadde accanto a me. La neve continuava a cadere e restammo semi sepolti per tutta la notte. Fummo soccorsi al mattino dopo e trasportati all’ospedale di Kirchlinde. Quando ripresi i sensi mi trovai in un lettino con le mani e il viso bendati. Dapprima non riuscivo a rendermi conto del mio stato: non capivo perché il mio corpo era privo di forze ed ero incapace di esprimermi. Poi a poco a poco, con uno sforzo di memoria cominciai a ricordare e si impossessò di me una sensazione di disorientamento e di rassegnazione che mi resero vuoto e abulico. A scuotermi da questo stato di indifferenza e apatia fu un altra sensazione questa volta guidati dall’intuito: avvertii accanto a me una presenza familiare, una presenza a me nota e cara. A fatica guardai attraverso le bende e scopri che accanto a me c’era Antonio, mio inseparabile amico di infanzia. Antonio era stato mio amico di giochi nell’infanzia ed ora compagno di sventura. Quel ventuno gennaio eravamo partiti assieme dal paese e assieme andati in Albania e deportati poi nel campo di prigionia di Dortmound. Destinato a lavorare negli alti forni con me, un giorno fu colpito a un occhio da una goccia di piombo fuso e ricoverato in ospedale. Da quel momento non seppi più nulla di lui. Ricordo che mi mancò molto, fu come aggiungere sofferenza a sofferenza. Con lui giornalmente dividevo tutto: il pane, i pericoli, il ricordo struggente dei nostri cari, della nostra terra. Spesso nei momenti di riposo, ce ne stavamo immobili, in silenzio, a guardare il filo spinato che ci limitava, che ci costringeva. Soffrivamo insieme nel sentirci disarmati e deboli… a vent’anni. Ed ora, nel momento più tragico della mia vita me lo ritrovavo accanto, quasi un miracolo, quasi un destino! Quello che fece per me Antonio in quel periodo è indescrivibile. Io ero completamente inabile sia per le ferite alle mani che per la fasciatura agli occhi: Antonio mi guidava in tutto, a mangiare, a muovermi, a camminare. Mi rassicurava su quanto accadeva intorno a me, mi aiutava a far passare il tempo lungo e tedioso, a sperare al meglio: insomma, in una sola parola, a sopravvivere. Caro Antonio, senza di te non so quale sarebbe stato il mio destino! non dimenticherò mai quanto hai fatto per me: a te devo la vita! Un altra persona che, al pari di Antonio, ebbe per me un ruolo importante per superare giorno dopo giorno lo sconforto della prigionia, fu una piccola suora dagli occhi azzurri dolcissimi. Tutti i giorni passava lieve e silenziosa, sostando presso ogni letto, porgendo aiuto e conforto a tutti. Una sera era solo perché Antonio era andato a riposare. Non riuscivo a dormire, ero molto depresso e singhiozzavo silenziosamente mentre le bende che mi coprivano il viso mi asciugavano le lacrime. Si avvicinò al mio capezzale e, accarezzandomi appena, mi parlò dolcemente; non capivo cosa diceva, ma riuscì a disperdere i miei foschi pensieri. Da quel momento diventò per me un’ancora di salvezza per risalire dall’ abruttimento in cui ero caduto nei lunghi giorni di prigionia. Cominciai, senza rendermene conto, ad aspettarla ogni giorno e mi bastava un attimo del suo sorriso per rendermi meno triste la giornata. Si chiamava suor Frida e fu il simbolo della donna o forse della mamma della quale tutti noi, in quei particolari momenti, ne avevamo bisogno più del pane quotidiano. Intanto la situazione diventava sempre più difficile. I bombardamenti si susseguivano senza posa, tutt’attorno era un cumulo di macerie. Venne colpito anche l’ospedale per quanto avesse una grande croce rossa dipinta sul terrazzo. Poi i tedeschi si ritirarono e seguì un silenzio carico d’attesa e di tensione. Gli alleati tardavano a venire e da noi scarseggiavano i viveri, medicinali e bende. I medici dell’ospedale decisero di andare loro incontro. Molti di noi si unirono a loro e ci avviammo sbandierando stracci bianchi in segno di resa. Non lontano avvistammo i carri armati americani: uno, due, tanti. Avanzavano lentamente sollevando un grande polverone. Festanti, urlando per la gioia, ci unimmo a loro e tornammo verso l’ospedale dove tutti, in delirio, accolsero i liberatori. Questa volta la guerra era veramente finita!
Tratto da: “Stralci degli anni miei” di: Angiolino Cotardo |