Maestro in Prima Classe

– Buongiorno, signor maestro – mi salutò il bidello – questa è la sua aula – e mi indicò una stanza sulla strada. Dirimpetto c’era la rumorosa bottega del carpentiere. Entrai e mi guardai attorno: una scuoletta come tante nei nostri paesi d’allora, coi muri nudi, grossolanamente imbiancati. Da un lato la cattedra di legno dipinta di grigio, smozzicata e scolorita, situata su una pedana consunta per il troppo uso e del colore della polvere di cui era impregnata. Le strisce di legno di cui era composta erano talmente assottigliate che ondeggiavano e gracchiavano a ogni movimento della persona. Le pedane servivano a dare una posizione più elevata al maestro per avere una visuale più vasta della scolaresca specialmente nelle classi numerose. I banchi vecchissimi di legno doppio e pesante, stretti gli uni agli altri avrebbero dovuto ospitare cinquantasette scolari, tre per banco. Come la cattedra anche questi erano dipinti di grigio, ma a differenza avevano le ribalte nere ed erano montati su pedane a strisce distanziate ridotte a minimi termini per l’uso. Da un lato, una porticina immetteva in un piccolo orto ombreggiato da una magnifica robinia, i muri comunicavano con altri orti dove i vicini accumulavano il letame che spandeva nell’aria un odore acre e fetido che attirava le mosche. Erano inconvenienti, ma a quei tempi l’adattabilità era la nostra dote migliore ed io ero contento di quella stanza soprattutto perché era sulla strada. Feci entrare i bambini e l’ambiente si animò, poi il vocio diventò frenetico, volarono spintoni e prepotenze per avere il primo banco, poi pianti e sbattere di cartelle: aveva inizio l’inconfondibile primo giorno di scuola! In gennaio senza preavviso entrò in classe il Signor Direttore ed io ebbi un momento di smarrimento e di paura. D’istinto cercai di non perdere la calma e mentalmente mi organizzai per fare bella figura. Ma proprio quella mattina i bambini che di solito erano silenziosi e tranquilli, almeno così a me sembravano gli altri giorni, non riuscivano a stare né fermi né zitti. Uno ebbe addirittura l’idea di mettere il dito nel calamaio e spruzzare i compagni. Qualcuno lo imitò e fu un crescendo di risate e lamentele. Ebbi la tentazione di urlare come spesso facevo per ridurli alla disciplina, o peggio a ricorrere alla bacchetta, ma la presenza del Direttore mi fece ricordare che un buon maestro non urla e tanto meno usa la bacchetta. Lo avevo studiato nei libri di pedagogia, ma ogni qualvolta mi trovavo in una situazione incontrollabile, per quanto ci mettessi tutta la mia buona volontà, se non esplodevo non riuscivo a ridurli alla calma. Quella volta per giunta, alcuni, dandosi di gomito e ammiccando evidentemente verso quel distinto signore che non avevano idea chi fosse, si erano fermati vicino alla cattedra e poggiatisi irriverentemente, lo osservavano coi loro grandi occhi scuri pieni di curiosità. – Ma caro maestro – disse nervosamente il Direttore lei così crede di poter fare scuola? Rimasi muto e impacciato. Poi aggiunse: – Adesso le farò vedere io come si fa – e vibrò un colpo col palmo della mano sulla cattedra emettendo contemporaneamente un urlo che fece tremare i vetri della porta. Tutti tacquero di colpo, impauriti e senza respiro. Li invitò a sedere e ristabiliti il silenzio e l’ordine poté iniziare la famigerata ispezione. Alla lavagna era appeso il cartello della lettera “N” credendo di agevolare, chiese ad un alunno: – Che segno è questo? La classe era come paralizzata. Non si sentiva alito e tutti guardavano il compagno e aspettavano. Quel piccolo figlio di contadini a stento riconobbe la lettera, poi, finalmente balbettò sottovoce: – Segno della “Foddhèa” (Nido) Il Direttore che era napoletano, lo guardò perplesso, poi rivolto a me disse: – E la prima volta che insegna, è vero? – Sissignore – risposi titubante. Allora comprese e, cambiando tono, con fare bonario e affettuoso volle darmi qualche consiglio. – Ricordi bene – e calcò su ogni parola – deve fare usare prima i quaderni di casa e poi quelli di classe. Deve fare leggere ogni giorno e soprattutto far recitare la preghiera. Le raccomando la massima serietà; di conseguenza la disciplina non le darà da fare. Con la prima elementare imparerà a fare il maestro. Così dicendo raccolse le sue carte, le mise sotto il braccio e si diresse alla porta; poi si fermò un attimo e con un largo sorriso aggiunse: – Coscienza e scienza, guaglione! – Sissignore, fu la mia unica e riverente reazione. Mi lasciò perplesso e intontito. Ero disorientato, non riuscivo a capirmi… forse ero scoraggiato per aver dimostrato incompetenza? o contento per le espressioni di umanità e comprensione che mi erano state rivolte? o forze era solo risollevato perché la porta si era rinchiusa alle spalle del superiore. Fu questione di attimi, però, poiché, passata la novità, la bufera tornò più tempestosa di prima e io mi sentii a mio agio in quel piccolo vivaio dove la vita era semplice, senza complicazioni e tutto andava bene ed io mi sentivo addirittura qualcuno. Come ho accennato all’inizio del capitolo, di fronte alla scuola c’era la bottega di un carpentiere dove si costruivano traini. I bambini erano attratti da quel singolare lavoro che comportava mesi e mesi di paziente applicazione. Infatti il carpentiere costruiva traini e carrette, completamente dalle assi alle ruote, e i bambini, prima di entrare a scuola, si fermavano in cerchio, curiosi di vedere come progrediva il lavoro. C’era sempre qualche esclamazione di stupore e di ammirazione nella scoperta dei pezzi nuovi: ai loro occhi era un miracolo quotidiano. Ogni mattina dovevo uscire sulla porta della scuola a chiamarli, ma loro rispondevano di malavoglia. La mattina che mi era più difficile richiamarli all’ordine era quando i giovani del carpentiere accendevano un fuoco circolare per affondarvi i ferri delle ruote. Era questo uno degli ultimi atti della costruzione: il più difficile per i lavoranti e il più interessante per i bambini. Il cerchi veniva affondato nei carboni ardenti per essere dilatato, poi a un segno del carpentiere, con grosse tenaglie e grosse aste veniva sottratto al fuoco e infilato attorno alla ruota già pronta per terra; subito dopo veniva bagnato con secchi d’acqua e battuto perché aderisse al legno perfettamente. Era un’operazione rischiosa che comportava competenza e cooperazione. Osservando la scena non si poteva che restare ammirati, anche se col fiato sospeso. Ogni qualvolta vedo i bambini in cerchio osservare qualcosa, mi tornano in mente chiari e nitidi quei momenti di paura e soddisfazione. I bambini di quella prima classe mi sono rimasti impressi e nel cuore. Erano uguali a quanti ne ho avuti nel corso degli anni, ma, a differenza degli altri, i nostri rapporti erano immediati e naturali e la compartecipazione al lavoro scolastico spontanea e divertente. Tutto ciò era dovuto alla mia giovane età, alla mia scarsa esperienza e competenza del lavoro scolastico. Col passare degli anni, acquisendo sempre più maturità, coscienza e cultura e diminuendo di conseguenza, anno dopo anno, improvvisazione, spontaneità e naturalezza, il rapporto con gli alunni, necessariamente, ha perduto genuinità e freschezza. Tra i bambini di quella classe voglio ricordarne uno in particolare. Apparteneva a una, allora, vasta categoria di bambini, un po’ diversi dagli altri per le condizioni misere di vita e la mancanza di rapporti sociali. Generalmente erano bambini che vivevano nelle masserie. Antonio era l’ultimo di una famiglia numerosa e, come d’uso in quell’epoca, veniva quasi “utilizzato” a portare le pecore al pascolo. Restava tutto solo da mattina a sera e passava il suo tempo a raccogliere erbe o seduto sotto un albero senza pensieri. I cani erano i suoi grandi amici. Non aveva né scarpa né abiti propri, perché a lui erano destinati quelli che ai fratelli più grandi non andavano più. Neanche il giorno della Prima Comunione ebbe un vestito tutto suo! Spesso si assentava o arrivava in ritardo. Entrava in classe con passo pesante abituato ai campi e agli spazi informi della masseria e in viso un accenno di sorriso impacciato e vergognoso. Mi colpivano le sue mani, sempre rosse e gonfie per il freddo che stringevano pochi libri sdruciti e accartocciati: mani sempre pulite, lavate, ma coi segni evidenti del lavoro e le unghie sempre sporche di terra. Troppo grande rispetto ai compagni, per aver ripetuto più volte le classi; se ne stava in un angolo taciturno e apparentemente distaccato. Conoscendolo, invece, si scoprivano in lui qualità eccezionali come l’umiltà, la remissività e la capacità di rinunziare e di offrire quel poco che aveva.

Tratto da: “Stralci degli anni miei” di: Angiolino Cotardo

Questo tasto è disabilitato!