L’ultimo Barone

 

Tornato da scuola, molto spesso, giravo per le strade del paese in bicicletta. Il paese era completamente vuoto perché tutti erano in campagna a lavorare; solo qualche vecchietta sedeva sulla porta a sferruzzare attorniata dai bambini più piccoli della famiglia, quelli, cioè, che non potevano essere portati in campagna. Sotto gli alberi della villa, invece, si riunivano i vecchi, ma quelli tanto vecchi che non avevano più la forza di lavorare. Sedevano su rudimentali sedili a godersi il sole e a chiacchierare sommessamente quasi a rispettare il religioso silenzio che avvolgeva il paese. Io spesso sedevo con loro e passavo il tempo ad ascoltare i loro umili discorsi. Di fronte alla villa sorgeva il Castello medievale che, col passar dei secoli, modificato più volte, aveva acquistato l’ aspetto di un palazzotto baronale.

Sul lato anteriore del Castello si apriva un grande portone d’ ingresso sormontato da uno stemma. Nella parte posteriore, invece, C’ erano i resti del fossato che, riempiti di terra, erano diventati un agrumeto. Gli alberi si affacciavano sul muro di cinta e in alto si ergeva un magnifico balcone barocco che sembrava appoggiato sulle loro chiome.Questo balcone era l’ unica nota frivola nella severità della possente costruzione.

A scuola avevo studiato la storia del feudalesimo, lo svolgersi degli avvenimenti e poi le trasformazioni nei secoli sia delle costruzioni come dei costumi dei proprietari. Spesso, guardando il Castello del mio paese, cercavo di inquadrarlo nello spazio e nel tempo secondo le nozioni imparate a scuola, ma molte cose mi sfuggivano, e fantasticavo. Un giorno su una panchina trovai un vecchietto più lucido con due occhi vispi e indagatori. Mi fidai di lui per qualche notizia: ma che poteva dirmi con la sua limitata cultura se non qualche fatterello appreso durante la sua vita? Comunque, con un pizzico di umorismo malignetto, mi raccontò una storia vera che si riferiva all’ ultimo Barone, e che io, poi nel tempo, studiando ancora, scoprì che non era l’ unica, ma, invece, era alquanto comune e frequente tra i Signori, dominatori dei nostri paesi.

* * *

Così il vecchietto, puntando il bastone contro il castello, cominciò:

– Nel palazzo vive ancora l’ ultimo barone, Don Nicola. Non esce più di casa perché vecchio e malato, ma la sua malattia non è della persona, ma dell’ anima perché ha peccati da scontare. Don Nicola era ricco e potente perché aveva ereditato tutti i terreni dalle Serre (località di Castrignano) al mare e la capacità di possesso e di priorità che gli veniva dal suo casato. Era bello, quanto superbo e riservato, ma invadente nello stesso tempo. Riusciva sempre, senza ombra di violenza, a piegare chiunque ai suoi voleri.

In autunno inoltrato, iniziava la raccolta delle ulive ed egli spesso e volentieri si aggirava fra le raccoglitrici; ma era sempre distante e distaccato: non ammetteva confidenze o scambi di vedute. Non andava per controllare, ma per passare un pò di tempo seguendo i suoi pensieri. Le donne a schiena china raccoglievano veloci e gareggiavano nel riempire i panieri che poi versavano nei sacchi per ricominciare da capo. Avevano le dita legate con stracci perché non “spaccassero” e le gonne lunghe, rese ancora più lunghe sul dietro da grembiuli o vestiti vecchi legati sotto il bacino. Si sistemavano in semicerchio ed era tutto un brusio di parole mozzate e risatine. A volte, tra loro si elevava una lenta e malinconica cantilena greca. In un gruppo di raccoglitrici c’ èra Nina: una bellissima ragazza di diciotto anni, aveva gli occhi scuri, meravigliosi capelli che incorniciavano un viso quasi perfetto. Aveva un buon carattere, allegro e sbarazzino, e la battuta pronta. Don Nicola l’ aveva notata e le sue visite all’ oliveto erano diventate più frequenti. Si aggirava nei punti dove poteva vederla e spesso abbozzava con gli occhi un impercettibile e significativo sorriso. Lei ne era lusingata e faceva in modo che i loro sguardi si incontrassero. Una sera, mentre le donne si apprestavano a tornare a casa, Don Nicola si avvicinò a Nina e con fare disinvolto le ordinò qualcosa. Nina dapprima titubante e vergognosa, esitava a ubbidire, ma poi con passo furtivo, quasi a sfuggire agli sguardi delle compagne, si avviò. Il Barone la seguì con simulata noncuranza, la raggiunse sulla porta “de lu furneddhu”, la spinse dentro dolcemente con tutta la sua persona quasi senza toccarla e…”il padrone” chiuse la porta.

Tutto era avvenuto con discrezione, ma non tanto da non essere intuito dalle raccoglitrici. Le donne semplici, senza cultura, hanno la capacità formidabile di cogliere attimi, sfumature e segni impercettibili che permettono loro di centrare infallibilmente l’ oggetto della loro intuizione. Poi, nei piccoli paesi, le notizie volano come foglie al vento e in particolar modo queste. Fatto sta che, in men che non si dica, la notizia fece il giro del paese. Gli uomini non fecero commenti, ma le donne, pur essendo indignate per la prepotenza del padrone, non potevano perdonare a Nina di non essersi ribellata-.

Il vecchio continuò:

– Passarono le settimane, ma non tante! E si seppe che Nina sarebbe andata sposa a Tore (Salvatore), uomo di fatica del Barone e anche uno dei più fidati. Le nozze vennero celebrate una mattina molto presto. Era ancora buio, faceva freddo e in chiesa non c’ èra nessuno. Nina andò ad abitare nella casa dove Tore viveva con la vecchia madre e per molto tempo non la si vide più. Passava le giornate a lavorare per la famiglia e cresceva il figlio che troppo presto era nato. Poi più nessuno parlò di lei -.

* * *

Se rimuovo i ricordi, mi sembra di rivederla: usciva frettolosa da casa per andare a “messa prima” sempre con lo sciarpone calato sugli occhi: povera Nina, bocciolo bellissimo, sfiorito quasi subito per pagare un peccato del quale non aveva colpa!

* * *

Nel Castello non ero mai entrato e non avevo mai visto il Barone. Un giorno mio padre mi disse che doveva andare a trovarlo non so per quale ragione e io gli chiesi di accompagnarlo per curiosare. Entrammo nel portone, mio padre vide un servitore e gli disse di avvertire il padrone perché aveva bisogno di parlargli. Io, intanto, andai a guardare nel cortile: era ampio; i cavalli erano legati agli anelli vicino alle mangiatoie; poggiati ai muri attrezzi e mezzi agricoli. Tutto in perfetto ordine e pulizia. Contadini e servitori si muovevano svelti e silenziosi per completare gli ultimi servizi della giornata. Il servitore tornò e disse che potevamo salire. Mio padre si tolse la “coppula”(cappello) in segno di rispetto e salimmo. Le scale erano di pietra leccese un pò corrose dal tempo, ma debitamente curate. Prima di entrare mio padre mi fece una serie di raccomandazioni ed io mi sentivo sempre più emozionato e inceppato. Un servitore ci fece strada ed entrammo in una stanza che a me sembrò enorme forse perché abituato alle piccole camere delle nostre case. Il Barone era seduto accanto al camino in un ampio seggiolone di quercia con un’ alta spalliera, sulla quale sovrastava una scultura in legno che rappresentava un falco in atto di spiccare il volo. Egli, senza voltarsi, fece segno con la mano di avvicinarci. Mio padre cominciò a fare le sue richieste mentre io timidamente osservavo attorno.

Il camino era grande e nero di filuggine, la legna bruciava scoppiettando e produceva innumerevoli scintille che salivano veloci verso l’ alto. La fiamma era lunga e ondeggiante e illuminava la stanza con bagliori intermittenti che producevano luci ed ombre sui muri e sui mobili. Provavo impressioni sinistre, forse perché suggestionato dai “cunti” (racconti) che le sere d’ inverno vicino al fuoco stuzzicavano la mia fantasia. Poi il mio sguardo si fermò sul Barone. Era in veste da camera e aveva un mantello di lana sulle ginocchia. Era, ormai, un vecchio canuto che parlava lentamente con disinteresse e cercava di essere conciliante e gentile, ma nel suo dire trapelava quella distanza e quel distacco che lo avevano caratterizzato in gioventù. I suoi occhi mi sembravano stanchi, ma non riuscì a rilevare altro.

Cosa passava nella mente di quel signore nelle lunghe giornate di solitudine in quell’ enorme stanza fredda e nuda? Era appagato della sua posizione che li aveva dato la possibilità di essere potente, dominatore e temuto? Oppure, come diceva l’ amico vecchietto, malato nell’ anima, intristiva ogni giorno di più tormentato da tardivi rimorsi?

Tratto da: “Il tempo non cancella” di: Angiolino Cotardo

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