Le Marionette

Quando ero ragazzo, gli svaghi erano pochi e semplici. Nei paesi mancava la luce elettrica e le sere d’inverno erano lunghe e tediose. Tutta la famiglia sedeva attorno al camino non solo per riscaldarsi prima di andare a letto, ma anche per usufruire della luce del fuoco e risparmiare il petrolio del lume che, a volte, era un lusso.
Le famiglie erano numerose, ma d‘abitudine, la sera si riunivano fra vicini per scambiare qualche parola. Si parlava di tutto e, spesso, tutti insieme: pettegolezzi paesani, interessi di lavoro, dicerie, soprusi, disgrazie; fortune inaspettate mai!, pareva che la fortuna girasse al largo dalle nostre case. I vecchi passavano il tempo a guardare la fiamma, dalla quale sembravano attratti e davano qualche giudizio solo se richiesto. I bambini erano in continuo movimento e davano fastidio perchè costretti in poco spazio: venivano, quindi, malamente rimproverati dalle mamme, stanche di una lunga giornata di lavoro. Ed allora per calmare i bambini e farli addormentare c’era sempre qualcuno ben disposto a raccontare “nu cuntu” con diletto anche dei grandi. Immediatamente l’ambiente si tranquillizzava e tutti, grandi e piccini, si disponevano comodi per ascoltare.
I “cunti” erano sempre gli stessi, ma ogni volta venivano presentati in modo vario e sempre interessante: manipolati e trasformati secondo la interpretazione e l’intento di chi raccontava, a volte erano impressionanti perchè miravano a calmare quasi ipnotizzare i bambini irrequieti. E allora gnomi, streghe, spiriti si alternavano da far mozzare il fiato. A volte erano ammiccanti specialmente se chi raccontava voleva fare una critica o esprimere il suo giudizio su fatti o persone non direttamente; ma il più delle volte erano pura narrativa fantasiosa, patetica e drammatica che sfociava sempre in una conclusione significativa o in una morale. I racconti per intrattenere i più piccini, invece, erano filastrocche senza senso, improvvisate all’istante e ingenuamente rimate; l’unico scopo era quello di strappare un sorriso ai bambini.
Chi raccontava, era quasi sempre una nonna dotata di fantasia e di spirito di osservazione che, per rendere più veritieri i racconti, improvvisava varie modulazioni di voce a seconda del personaggio e delle situazioni nelle quali lo aveva inquadrato. Sì serviva di una nutrita mimica, soprattutto facciale: sgranava gli occhi, corrugava la fronte, addolciva l’espressione del viso sino al sorriso, atteggiava la bocca a pianto, a riso, a disgusto e cosi via. Spesso e volentieri l’argomento si aggirava attorno ad un simpatico personaggio che attirava interesse e simpatia, ma anche suscitava un tantino di soggezione da parte degli astanti: era “lu sciacuddhi”.  Oggi i giovani non lo conoscono, ma in quei tempi, tutti erano convinti della sua esistenza, lo temevano e lo rispettavano. Era un folletto dispettoso e burlone che si aggirava nelle cucine e nelle stalle. Era difficile vederlo, ma tutti affermavano che era presente, ben nascosto dietro le scope, le “capase”, nel camino, sotto il letto. Ne confermavano la presenza soprattutto ì vecchi quando non trovavano gli oggetti dove li avevano lasciati: certamente, durante la notte, “lu sciacuddhi” si era divertito a spostarli!
Ma la bravata più grossa di questo folletto si consumava nella stalla dove, durante la notte, intrecciava le code dei cavalli. Il mattino dopo i “tranieri” erano furibondi perchè dovevano perdere tempo a scioglierle prima di partire; e riempivano di improperire il’ povero “sciacuddhi” che chissà in quale angolo della stalla, ben nascosto, se la godeva divertîto.

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Una piacevole parentesi, per tutti, era il teatro delle marionette che provocava specialmente nei ragazzi, una sorte di ebbrezza per la rara novità. Infatti il teatro ambulante delle marionette, reduce da un lungo giro, arrivava nel nostro paese una volta l’anno ed era l’unico perché compagnie migliori non si azzardavano a raggiungere i nostri paesi. Le strade erano di tufo e disastrate, mancava l’energia elettrica e ogni minima comodità; e inoltre la spesa non sarebbe valsa l’impresa: avrebbero guadagnato talmente poco da rimetterci.

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Il teatro delle marionette prendeva posto in un vecchio deposito di tabacchi. La notizia si diffondeva in un baleno. Il padrone si chiamava Rondella e, appena arrivato, si metteva al lavoro perché tutto fosse pronto per la sera. lntanto, mentre dentro fervevano i preparativi, fuori nella piazzetta antistante piccoli e grandi cercavano di spiare dalle fcssure dello sgangherato portone nel tentativo di cogliere gratuitamente qualche brandello di spettacolo.
Quando giungeva l’ora, Rondella che era anche il primo attore, apriva il portone e si trovava davanti quasi tutto il paese vociante e invadente, ma riusciva a calmare gli animi e a far passare uno la volta e solo chi aveva la moneta in mano. Qualche bambino riusciva a sgattaiolare fra le gambe dei grandi, ma Rondella faceva finta di non vedere. L’androne si riempiva sino all’inverosimile e c’era un baccano infernale che aumentava sempre di più: i ragazzi gridavano e fischiavano per fare iniziare lo spettacolo e gli adulti altrettanto per farli zittire. A completare tutto c’era la voce gracchiante di un grammofono arrugginito che suonava vecchi motivi. Poi, finalmente, il segnale dell’inzio dello spettacolo e la tenda del teatrino si apriva; le voci piano piano si trasformavano in sussurri che si spegnevano in un silenzio carico di attesa e di interesse.

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ll teatrino arrivava a fine maggio nel periodo in cui io avevo molto da studiare per le ultime interrogazioni, ma cercavo sempre di farcela per avere il piacere di godere un fatto nuovo e una serata diversa. Quella sera arrivai in ritardo e dovetti farmi largo a furia di spintoni e gomitate per avvicinarmi al palco e sentire meglio. Era tanto raro avere in paese uno spettacolo e non volevo perdere neanche una battuta della tragedia.
Lo spettacolo era incominciato. Sulle scene si alternavano vari personaggi. l burattini erano di legno, rivestiti dì stracci coloratissimi e lamiere luccicanti; i visi dai lineamenti sproporzionati avevano espressioni fisse e impressionanti. Rondella aiutato dalla sua compagnia li manovrava con destrezza e prestava loro la voce. Non tutti gli attori erano del luogo e si esprimevano quindi in un linguaggio vario. Sì sentivano cadenze napoletane, siciliane e salentine. La recita era sempre la stessa: la storia di Guerin Meschino, di Angelica e di Orlando. Si alternavano quindi scene strazianti di amori infelici, emozionanti sfide audaci e infuocate e, immancabilmente, un finale di morte violenta.

Ricordo ancora alcune espressioni:
– “Se ti prendo ndà ste mani ti spricolo”! –
– “Spada tu, sciabola io: secutiamo a batterci” -.
– “Pogg’essere ca vinci, pogg’essere ca vinco” -.
– “Non hai morto ancora?” –
– “No. Ho una sola scrasciatura sulla panza” -.
– “E mò tènite chista ccà!” –
e il guerriero affondava la spada nel petto del morente. Un sonar di lamiere e un groviglio di pupi chiudevano la scena. Dall’uditorio un frastuono di applausi intercalati da: Bravo! Bravissimo! e grida di entusiasmo, schiamazzi e fischi.
Ma quella sera lo spettacolo non era finito. Rondella aveva promesso un numero speciale, nuovo, mai visto prima in paese. Lo aveva annunciato ed ora tutti erano ansiosi e cu- riosi della novità.
Sul palco allestito alla meglio, comparve un uomo vestito di nero, piccolo, magrolino, col viso scavato e inespressivo, e di indefinibile età. I capelli brizzolati, unti di brillantina, mostravano i segni del pettine. Aveva in una mano il violino e nell’altra l’archetto; si fermò al centro del palco per fare un inchino e poi si sedette da un lato su una sedia già preparata. Accennò alcune note e dalle quinte comparve a passo di danza, con un tamburello in mano, una ragazza che poteva avere appena quindici anni. Si chiamava Lulù. Era una bella mora dalla pelle dorata e dai capelli corvini che le scendevano voluminosi e ondulati fin sui fianchi. Il vestito stampato a grandi rose era arricciato in vita e lungo da lasciare scoperte le esili caviglie e i piedi nudi. Le maniche ampie, anch’esse arricciate agli omeri, le ricadevano sui gomiti, ma. quando batteva in alto il tamburello, si ripiegavano sulle spalle scoprendo le braccia nude. l suoi passi erano in sintonia col suono del violino e il suo corpo snello e morbido creava movimenti di indicibile grazia.
Verso la fine il violino aumentò il ritmo e lei si muoveva sempre più svelta. l piedi nudi battevano sul palco, mentre le dita picchiettavano sempre più frenetiche sul tamburello che faceva roteare, lanciandolo e riprendendolo più volte. Improvvisamente, piegò il corpo flessuoso in avanti sino ad adagiarsi sul pavimento, posò lentamente con ambedue le mani avanti a sè il tamburello, mentre il suono del violino diminuiva dolcemente sino a spegnersi.
L’applauso scoppio frenetico: grida, fischi e bis a non finire.

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Non posso non ricordare con nostalgia gli umili giochi dei bambini. I bambini sono stati sempre uguali attraverso i tempi: cuccioli curiosi, interessati, avidi di apprendere e confermarsi, pronti a misurare le proprie capacità e a confrontarsi. Ma, in quei tempi, specialmente nei nostri paesi, non c’era niente per soddisfare queste loro esigenze, quindi essi stessi, aguzzando la mente e servendosi dell‘innata fantasia, inventavano semplici giochi di abilità usando il materiale poverissimo a loro disposizione.
Il gioco più conosciuto e più apprezzato perchè tramandato da padre in figlio era “a furmeddhe”. Gioco semplicissimo, ma ricco di varianti progettate là per là, diventato vario, interessante e spesso complicato perchè bisognava rispettare regole imposte dagli stessi giocatori che esigevano massima precisione e forte attenzione. Guai a chi scapellava! C’erano segreti per scoprire chi barava, ed erano discussioni, insulti, ingiurie sino a venire alle mani. Inoltre comportava l’impresa di rubare i bottoni in famiglia e non sempre passava liscia. Ricordo ancora oggi la rimenata di mio padre quando si accorse che mancavano i bottoni alla sua giacca!
Il gioco consisteva nel buttare dei bottoni per terra e poi vincerli spingendoli gli uni verso gli altri con un colpo deciso del medio contro il pollice. Il bottone toccato era vinto; i rimanenti non dovevano essere nemmeno s?orati, altrimenti il gioco passava senza vincita ad un altro compagno.
Si chiamava “a singheddhu” se una volta buttati i bottoni per terra prima di spingerli l’un l’altro si decideva che tra essi doveva farsi un segno col dito (“singu”) per stabilire una distanza minima, almeno un dito, tra loro, prima di giocare; “a vota manu” se i bottoni si buttavano in aria e si cercava di riprendere il più possibile col dorso: questi erano vinti in partenza, quelli per terra invece, dovevano essere giocati.
Altre varianti erano: “allu sutta” se i bottoni venivano buttati a uno a uno facendoli strisciare sul pavimento sino a raggiungere il muro; e “allu tuzzu” se venivano buttati, sempre a uno a uno, ma contro il muro. In queste ultime due varianti, i bottoni si vincevano se si distanziavano tra loro di un palmo; se la distanza era di più, si passava il gioco ad un altro giocatore, se era di meno si spingevano come di regola.
A “cuddheddhi”, invece, occorrevano piccole pietre particolari che venivano scelte con pazienza e perizia e conservate come proprietà personale: erano piccole perché, se il gioco andava bene, dovevano essere contenute tutte in una mano; ma non troppo perché occorreva un pò di peso per farle ricadere a piombo, e, ancora a sfaccettature larghe perchè non dovevano rotolare. Per il gioco ne occorrevano cinque: quattro si disponevano ai quattro angoli di un quadrato immaginario e la quinta in mezzo. Dopo il tocco, il primo giocatore prendeva la pietra di centro, la lanciava in aria e, a grande velocità ne prendeva un’altra da terra e poi, immediatamente, quella che cadeva dall’alto; quindi lanciava in aria le due pietre che aveva in mano, prendeva la terza e quelle che ricadevano dall’alto e così via sino a raccogliere in mano tutte e cinque le pietre.
Era molto difficile portare a termine questo gioco, ma ricordo l’ostinazione di alcuni che poi alla fine ci riuscivano.

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Si giocava con gli animali.
La cattura delle lucertole era un’impresa impegnativa per la pazienza e la costanza che richiedeva. Questa caccia, ad oltranza, avveniva in primavera, quando cioè si potevano trovare in campagna i fuscelli di “carpavina” che venivano scelti con grande cura perchè dovevano essere flessibili, lunghi e resistenti; e, in cima, si doveva costruire “na chiappula” per incastrare le lucertole ed essere in grado di trainarle o dondolarle sospese. Il cappio si sistemava in punti nevralgici alla base di muretti a secco o tra le erbe vicino a grosse pietre, mentre con mano ferma si doveva sostenere il fuscello dall’altro capo. In questa posizione di incredibile immobilità, trattandosi di bambini, si attendeva il passaggio di una povera e ignara lucertola in cerca di un posto tranquillo per scaldarsi al sole. E, appena appariva, con movimenti precisi e impercettibili (incredibile anche questo!) si dirigeva il cappio attorno al collo della malcapitata che veniva strozzata a tradimento con uno strappo preciso.
Si tornava in paese esibendo il trofeo delle proprie prodezze e, più erano grosse le lucertole, più ci si sentiva importanti e si veniva lodati. Qualche volta si portavano anche a scuola, in dono alla maestra, la quale faceva deboli e circospetti tentativi per sensibilizzare i cacciatori, ma sapeva già in partenza di non raggiungere lo scopo desiderato, anzi rischiava di deludere le aspettative dei bambini che erano sicuri di trovare a scuola, come a casa, apprezzamenti per la loro abilità.
Anche le cicale venivano catturate ma, queste, per strofinarle con un dito e sentirle cantare. Generalmente si regalavano ai più piccoli per farli divertire. La scoperta di un rospo tranquillo e acquattato, invece, faceva venire il desiderio del tiro a segno con le pietre. L’impresa più emozionante, però, era la caccia ai nidi: si gironzolava per le campagne sino ad individuare cardilli o verdoni; si osservava il loro volo e la loro meta: una volta avvistato il nido si procedeva all’attacco e la scalata era emozionante e difficile specialmente se si trattava di alberi selvatici dai rami fitti e intrecciati. Bisognava andare piano per non insospettire, quindi i movimenti dovevano essere lenti, sino a raggiungere l’immobilità.
Una vera e propria sfida a se stessi per una prova di abilità e costanza!
Finalmente raggiunto il nido, lo si afferrava con prontezza coprendolo col palmo della mano per poi chiuderlo in una rudimentale gabbietta appositamente costruita in modo da lasciarla nello stesso posto per permettere alla mamma di nutrire i piccoli che poi, cresciuti, si sarebbero portati a casa.

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Per questi ultimi passatempi, il lettore giovane non si scandalizzi. Non comportavano nè cattiveria nè, tantomeno, malvagità. Molto spesso erano gli stessi genitori a insegnarli. Conoscevano i desideri e le necessità dei loro figli e non avevano altro da offrire, purtroppo il bisogno, molto spesso, produce insensibilità e indifferenza. Comunque questi giochi, come tutti gli altri, sono scomparsi quando i bambini hanno potuto avere dei giocattoli che permettevano loro di manovrare, trainare, lanciare e soddisfare il piacere dell’ascolto.

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Il gioco delle bambine invece era “la campana”. Un semplice gioco fatto di saltelli e di equilibrio. Anche qui la precisione e l’attenzione erano necessarie. Si disegnava per terra con una pietra morbida (era molto facile trovarne sui bordi delle strade di tufo friabile perché non esisteva l’asfalto e periodicamente le buche venivano colmate da frammenti di tufo) una sequela di sei spazi adiacenti a due a due, sormontati da’ un ultimo spazio a semicerchio. ll tutto nell’insieme dava l’idea di una rudimentale campana. Le caselle rettangolari erano numerate da uno a sei: in salita da sinistra, in discesa da destra. La parte semicircolare non aveva numero e si chiamava campana. Si poteva giocare in più bambine, ma anche sole. Anche questo gioco era a prova di abilità! Per giocare occorrevano pietre piatte nè pesanti nè leggere, oppure pezzi di “imbrici”: la scelta era oculata e da intenditrici. Dopo il tocco che consisteva in una filastrocca di parole senza senso, ma cadenzate e regolari, iniziava il gioco: la prima bambina buttava la pietra nello spazio numero uno, saltava dentro, mantenendosi su un solo piede e, sempre in questa posizione, doveva portare avanti la pietra spostandola col piede sino a raggiungere la campana, badando bene però a non fermare la pietra sulle linee di demarcazione tra caselle, altrimenti avrebbe realizzato il punteggio del numero della casella precedente, senza poter andare oltre. Passando da una casella all’altra si doveva dire il numero ad alta voce, e l’ultimo detto era il proprio punteggio. Se la pietra usciva dalla campana si veniva squaliticate. Se invece si aveva la fortuna di raggiungere il semicerchio, ci si poteva riposare e poi riprendere la discesa delle altre tre caselle. Naturalmente vinceva chi aveva superato più caselle.
Si poteva giocare anche senza pietre e, cioè, passare le caselle a una a una guardando in aria per indovinare gli spazi evitando le linee. Si andava sempre in salita da sinistra e in discesa da destra dopo essersi riposate nella campana. Questa variante comportava una strana filastrocca cadenzata che aiutava il passaggio da una casella all’altra. Diceva così: Amme – Salamme – Amme – Salamme – Salamune. Si arrivava quindi alla campana e poi si discendeva dall’altra parte recitando la stessa tiritera.

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E ancora, da non dimenticare la commovente “pupa de pezza” composta in vari modi secondo la fantasia di chi la costruiva; generalmente ci si serviva di un paio di canne legate a croce che si rivestivano di stracci o solamente di un unico vecchio fazzoletto.
Chi non ha avuto una “pupa di pezza”!
Se non le mamme, che avevano sempre poco tempo, le nonne si dedicavano a questa semplice costruzione e lo facevano in presenza delle bambine accompagnando i gesti con parole affettuose e gentili. Le bambine seguivano attratte e interessate ed erano felici poi di avere la “pupa” tra le braccia per poter soddisfare il loro istinto materno.

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E da ultimo un finto giocattolo per alleviare un lavoro pesante, monotono e quasi disumano che toccava quasi sempre ai bambini: “lu traineddhu” per trasportare più “menze e sicchi de latta” pieni d’acqua dalla fontana a casa. Era un piano costruito con tavole di fortuna, con i bordi un pò alti per riparo. Vi si legava ai due lati una lunga corda che due o un solo bambino trainavano facendo forza col petto e aiutandosi con le mani.

Tratto da: “Il tempo non cancella” di: Angiolino Cotardo

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