La “Mammana”

Il paese, silenzioso e vuoto, era in lutto, Tutti erano andati a recare l’ultimo saluto a “nunna” Vita, la più vecchia del paese, che si era spenta dolcemente la sera prima. Aveva quasi cento anni. Era la mamma di tutti perchè sin da giovane aveva praticato l’arte della “mammana”.
Tanti erano nati dalle sue mani e molti la ricordavano ancora sempre pronta ad avvolgersi nel suo sciarpone e uscire frettolosa, sia di giomo che di notte, con qualsiasi tempo, per raggiungere al più presto chi aveva bisogno di lei.
Camminava a passetti veloci e a testa bassa come se volesse contare i passi e mantenere sempre lo stesso ritmo anche se la strada era disastrata e la masseria lontana.
Appena arrivata, si toglieva lo scialle e, senza preamboli, si metteva all’opera. Ordinava a tutti varie incombenze e, tenendo cosi occupata tutta la famiglia, faceva passare il tempo necessario ingannando l’attesa. Anche la partoriente era coinvolta e agevolata.
Nessuno l’aveva mai vista sorridere. Nei preparativi si aggirava per la stanza con impegno e serietà. Al momento, dettatole dall’esperienza, con movimenti semplici, delicati e precisi, portava a termine la sua fatica e tutto andava bene. Subito dopo, appena sistemata la donna e lavato e fasciato il bambino, se ne andava senza commenti nè smancerie. D’inverno, quando faceva freddo, accettava un bicchiere di vino, ma quasi sempre non voleva niente. La ricompensa era qualche provvista o qualche soldo, secondo le possibilità della famiglia. Lei ringraziava e andava via.

***

Quanti ne aveva aiutati a nascere! Non si contavano! Figli e figli dei figli. E lei avrebbe continuato all’infinito, ma l’età la tradì e piano piano dovette limitarsi al solo paese e poi neanche più a quello.
Verso la fine passava il tempo sulla porta di casa, seduta su una sedia bassa impagliata. D’inverno dietro i vetri, d’estate sulla soglia, sempre a testa bassa seguendo i suoi pensieri. Chi passava la salutava e lei rispondeva con un cenno della mano sollevando lentamente la testa per vedere chi fosse. A volte qualcuno si fermava, ma erano discorsi brevi e risposte monosillabiche.

***

Per onorarla gli uomini non erano andati in campagna, affollavano la viuzza dove era sempre vissuta: una lunga, compatta macchia nera tra il bianco di calce delle case. Era difficile raggiungere la sua porta, bisognava fare a gomitate, eppure tutti cercavano di poterla rivedere l’ultima volta e offrirle qualche parola di commiato, di ringraziamento, di riconoscenza.

***

Io assieme ad un amico decisi di entrare per curiosità. A fatica raggiungemmo l’abitazione. La casa era ampia e imbiancata di fresco. I muri, ruvidi e poco livellati, rivelavano le striature del pennello e lasciavano intuire i vari strati di calce grossolanamente sovrapposti ogni due anni “per pulizia”. Di fronte alla porta grande, un semplice e lineare camino: il minimo per accendere il fuoco e cucinare; in alto le tavole con le bottiglie di salsa ben allineate e il formaggio. Sui muri i vuoti per le stoviglie coperti da tendine bianche ricamate appese al filo di ferro; e, al lato della porta, il lettone, alto sugli scanni di ferro perchè sotto doveva contenere masserizie. Anche “lu saccune” era stato rifatto con foglie fresche di “pupi”: la morte doveva essere accolta con dignità e decoro.

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Ad un tratto, come se uno spirito avesse aleggiato fra gli uomini, si intese un leggero brusio e tutti si accalcarono ancora di più contro i muri per far passare: erano arrivate le prefiche di Martano.

***

Erano tre. Entrarono spedite e, appena dentro, le donne che attorniavano il letto si alzarono per cedere loro il posto; ed esse sedettero serie e gravi, compenetrate nel loro compito.
Tutt’attorno un silenzio profondo, simile alla morte.
Erano vestite completamente di nero e la foggia dei loro abiti era ciò che restava dell’antico costume: camiciola senza collo, ricca di pieghine fisse che scendevano lineari dalle spalle alla vita e una fila di bottoncini al centro. La gonna, arricciata in vita, arrivava sino a terra ed era coperta quasi totalmente da un ampio grembiule anch’esso arricciato con la cintura sottile e regolare incrociata dietro e poi riportata sul davanti dove era annodata. In capo il fazzoletto nero calato sul viso e lo sciarpone. Ai piedi gambaletti alti stretti da lacci che incrociavano regolari tra due file di ganci.

***

Con fare lento e austero, dalla tasca interna del grembiule, trassero grandi fazzoletti bianchi e, dopo un attimo di riflessione, per organizzare l’improvvisazione su quanto avevano appreso sulla morta pochi istanti prima di entrare, iniziarono i lamenti. La nenia, prima lenta e solenne, procedeva sempre più drammatica e toccante. Le parole e le espressioni erano scelte proprio per lei, umile e dignitosa, seria e responsabile; per lei che aveva svolto un lavoro umano e delicato senza chiedere o pretendere alcuna ricompensa, un lavoro offerto come dovere verso gli altri e come
scopo dl vita per se stessa, quasi a valorizzare la sua umile esistenza.
Le espressioni sgorgavano dall’animo, sentite, vere, commoventi: toccavano il cuore e mozzavano il respiro, lasciavano i presenti incantati e incatenati in un trasporto totale e invincibile. Non una lacrima nei loro occhi, ma una commozione intima da toccare le massime sfere dell’emozione.
Tutto era nero e immobile nella stanza di “nunna” Vita, solo i tre fazzoletti bianchi tesi a triangolo si muovevano e abbagliavano col loro candore. Ondeggiavano all‘unisono col movimento del capo e delle spalle delle prefiche e in perfetta sincronia col canto disperato e straziato. A volte, con movimento rapido e improvviso erano racchiusi fra le mani e stretti al seno in segno di acuto dolore, a volte presi da una cocca e sbattuti ripetutamente sulle ginocchia o sui bordi del letto accompagnati da parole gridate con ritmo incessante come guidate dal battere di un tamburello, e ancora, quando la nenia allentava lo spasimo e si spegneva in un singhiozzo, stesi sulle ginocchia e accarezzati dolcemente.
Ad un tratto un nuovo brusio aleggiò tra la gente: arrivava il sacerdote! Le prefiche tacquero all’istante, nascosero i fazzoletti e uscirono serie e dignitose come erano entrate. Fuori i parenti le aspettavano per ricompensarle. Le prefiche presero il denaro con movimento veloce, lo nascosero in petto infilandolo nell’apertura del corsetto e si avviarono senza ringraziare.
Camminavano di buon passo sulla via bianca di tufo e le loro lunghe gonne strofinando per terra sollevavano una leggera nube di polvere. Sembravano identiche: fazzoletti, sciarponi, grembiuli. Si allontanavano sempre più sul rettifilo di Martano e la campagna faceva loro cornice con i suoi trulli e i suoi fichi. Diventavano sempre più piccole e, ricordando le loro espressioni di disperazione e di morte, davano l’impressione dell’allontanarsi lento e silenzioso del nostro mondo.

Tratto da: “Il tempo non cancella” di: Angiolino Cotardo

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