In un pomeriggio afoso arrivai alla masseria sudato e accaldato. Il sole spaccava le pietre e tutto intorno era accecante: la masseria bianca di calce, le pietre dei muretti e persino le foglie degli alberi che luccicavano sfacciatamente colpite dai raggi infuocati.
Sotto l’androne, al fresco, se così si può dire, accontentandosi di un pò d’ombra e di un leggero venticello, le donne infilavano le foglie di tabacco. Ognuna aveva un lungo “spadino” al quale era infilato un
filo di spago. Con la sinistra tenevano le grosse foglie del tabacco dalla parte del picciolo e, allargando l’indice e medio, le infilavano nell’ago.I loro movimenti erano veloci, metodici e meccanici. Dopo aver riempito lo “spadino”, con una mano ne tenevano la punta, mentre con l’altra spingevano la fila delle foglie in fondo allo spago.
Quando lo spago era pieno, lo sfilavano dall’ago. Le “nzerte” così preparate venivano stese nei “tiraletti” e lasciate seccare al sole. Le donne erano sedute in cerchio e, al centro, c’era una montagna di foglie verdi delicatamente ammucchiate.
Il tabacco richiedeva lavoro estenuante perchè doveva essere raccolto all’alba e infilato in giornata. Nei pomeriggi soffocanti, per non cedere al sonno, le donne cantavano in coro.
Erano voci incolte, squillanti, ma spontaneamente armoniche nella dolcezza delle espressioni e delle modulazioni. A volte erano canti dialettali che ricordavano fantastiche avventure di cavalieri e principesse come la canzone di Donna Sabella, principessa sfortunata di Roca:– Nu me chiamati cchiui Donna Sabella,
chiamatime Sabella sventurata,
mo ‘ caggiu persu Napuli e Messina,
terra de Roca e Basilicata -.oppure nenie nella cara, dolce lingua materna che toccavano il cuore perchè suscitavano sentimenti e ricordi di commozione:
_ Calinifta, calispera,
m’ in cardìa se cheretò -.
‘Sù to cui mott’in è vvrai:
– ti vasti pu s’agapò? –
-Buona notte, buona sera,
ti saluto con il cuor -.
S’ode qui da mane a sera:
– Che ti senti, dolce amor?
***
Mi allontanai dal portico per cercare massaro Peppe. Lo trovai nella cantina della masseria. Scendendo al buio, accecato dal sole, non vedevo niente, sentivo solo la voce del vecchio che, aiutato dal figlio, sistemava alcuni barili.
Poi piano piano l’ambiente si chiarì, si profilarono le loro figure e li individuai.
La cantina della masseria, anticamente, era un frantoio sotterraneo e, all’epoca dei fatti, svuotato dalle attrezzature, era diventato un deposito, solo in un angolo troneggiava una enorme macina abbattuta. Incuriosito mi avvicinai e la tastai quasi a provarne la possanza: Massaro Peppe mi scorse e, sospendendo per un attimo il lavoro disse. -Quella macina è testimone di uno straziante episodio avvenuto tanti anni fa -. Poi finì di sistemare il barile e, asciugandosi le mani quasi strofinandole su uno straccio, si sedette su uno scanno invitandomi a prendere posto vicino a lui. Stette un attimo a guardare la macina con un sorriso del tutto indefinibile, poi, con un gesto alquanto abituale, chiudendo la destra quasi a pugno, sollevò la coppola sulla fronte e poggiandosi coi palmi delle mani dall’una e dall’altra parte dove sedeva, cominciò a raccontare.
– Tanti anni fa era proprietario di questa masseria Don Girolamo che ai suoi tempi era fra i più crudeli feudatari della zona. Possedeva immense distese di ulivi e terre semenzabili, e costringeva i contadini a lavorare giorno e notte come schiavi. Si racconta che si alzava alle quattro del mattino per girare il casale scuotendo un campanaccio per svegliare i braccianti. Un anno, il raccolto delle ulive fu abbondatissimo ed egli ordinò di tenere attivi i “trappiti” di giorno e di notte per non sprecare neanche un ’uliva. Egli stesso controllava perchè i suoi ordini venissero osservati. Gli uomini erano sfiniti. Una notte di gennaio si scatenò una terribile tempesta con lampi, tuoni, pioggia insistente e vento impetuoso. I “trappitari”, sicuri che il padrone non sarebbe andato, spensero i lumi e si concessero qualche ora di riposo. Ma all’alba, per la stanchezza, non riuscirono a svegliarsi. Giunto Don Girolamo, ebbe la sorpresa di trovare tutto fermo e gli uomini rannicchiati negli angoli nel più profondo dei sonni. Dapprima urlò e bestemmiò, poi, con gli occhi rossi di rabbia e la voce roca, ordinò ai “trappitari” di legare il “nachiro”, che era il capo, e di buttarlo nella vasca. Gli uomini terrorizzati ed esterrefatti dovettero farlo. Egli stesso poi spinse il cavallo per avviare il movimento della macina che cominciò a girare, e, nel silenzio profondo che si era formato, il suo stridore era un grido di terrore e di morte. Ma la pietra ebbe pietà, quella pietà che, a volte, gli uomini non conoscono e, arrivata vicino all’infelice, si fermò, piegò su se stessa e cadde a terra restando così come tu la vedi -.
***
Salimmo dalla cantina e il sole ci colpì violento avvolgendoci in un manto caldissimo. C’era un forte odore di tabacco, acre e pesante. Aiutai massaro Peppe ad appendere le “nzerte” nei “tiraletti” che esponemmo al sole dove dovevano restare per parecchi giorni a fermentare e seccare lentamente. Finito il lavoro sedemmo sotto un enorme gelso che con le sue grandi foglie non permetteva ai raggi del sole di passare e dava l’impressione di piacevole refrigerio. Massaro Peppe si sedette su un “cute” levigato e posto sotto l’albero in funzione di sedile. Con le grosse mani poggiate e aperte sulle ginocchia, quasi a volerle contenere, guardava assorto la distesa dei “tiraletti” al sole. Poi espresse a parole il suo pensiero: – Quanta fatìca!…Mai apprezzata abbastanza.
Tratto da: “Il tempo non cancella” di: Angiolino Cotardo
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