Nella masseria di massaro Peppe non c’era mai quiete, neanche quando il lavoro era finito. Durante il giomo, e spesso per tutto il giorno, venivano le figlie maritate: Maria Arcona e Assunta. La prima con quattro figli, la seconda con tre che si univano ai figli di Antonio, unico maschio che viveva nella masseria. Questi aveva sposato una giovane di Calimera che era talmente remissiva e tranquilla da conoscerne a stenti la voce.
Ultima componente della famiglia era Concettina, ancora “zita” e molto diversa dalle altre due sorelle. Mentre le prime due erano brune, forti e con gli occhi neri, questa era chiara di capelli e di carnagione e aveva un portamento delicato. Essendo la più piccola e distanziandosi dagli altri figli, era stata riguardata e non gravavano sul suo fisico le conseguenze dei lavori pesanti.
La famiglia di massaro Peppe e massara Teresa era una famiglia all’antica, stabile e salda, dove il continuo e disinteressato aiuto reciproco rinsaldava gli affetti e l’unione. Massaro Peppe era orgoglioso dei suoi nipotini che crescevano sani e forti; li voleva sempre vicini e si interessava a tutti con grande affetto e senza discriminazione. I bambini, dal canto loro, si sentivano protetti dalla grande figura del nonno al quale erano molto affezionati e, spesso, senza nessuna reticenza, si mettevano nei guai per sentirsi poi felici di aver attirato la sua attenzione.
Concettina era ancora molto giovane e, secondo l’uso, passava le giornate china sul telaio per lavorare alla “dota”. In quei tempi tutta la biancheria veniva tessuta a casa, quindi occorrevano anni di lavoro soprattutto se si voleva portare un corredo ricco. E massaro Peppe per questa ultima figlia voleva fare di più.
La ragazza tesseva e pensava: come sarà il mio uomo‘? Quando lo incontrerò? Dovrà essere lavoratore come mio padre, e buono e onesto per portare avanti una famiglia buona e onesta come la mia. Se non troverò, resterò qui con i miei. Qui non mi manca niente, nè casa, nè comodi, nè affetto.
Pensava e tesseva…lmmaginava e tesseva…
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A volte quando andavo alla masseria, sentivo il battere regolare e deciso delle “casce de l’argaliu” e, portato dalla curiosità, entravo in casa.
C’era da restare incantati a vedere la velocità con cui Concettina lanciava la “saitta” tra i fili tesi “de la menata e de la stisa”: sempre a colpo sicuro, sincronizzando, con la regolarità di un orologio, il movimento delle “podarichce”.
La tela si arrotolava di volta in volta sino a non poter essere più contenuta da “lu suju”, allora Concettina, con l’aiuto della mamma o delle sorelle, la smontava srotoIandola per incominciare il lavoro di confezione. Faceva tutto da sola: lenzuola, tovaglie, asciugamani; e tutto allestito con frange, ricami, puntina.
“Na figghia d’oru, comu nun nci nd’è stannu!”
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Una domenica mattina, Concettina uscendo da messa cantata con le sorelle, si vide guardare da un giovane bruno e di bell’aspetto. Per un momento credette di ricordarlo ma, subito dopo, si convinse che non lo aveva mai visto. Lui, invece, la riconobbe subito e rimase rapito dalla sua grazia e bellezza. ,
Era Rocco, il figlio di compare Ciccio il mercante. Era stato lontano quasi due anni per fare il soldato: l’aveva lasciata bambina e la ritrovava donna e molto bella.
Per diverse domeniche l’aspettò all’uscita della chiesa e la seguì; e lei gli sorrideva per fargli capire che era contenta. infine si decise e mandò una persona amica per far conoscere ai genitori le sue intenzioni che, come mandò a dire, erano serie.
Il giovane piacque anche perchè massaro Peppe era in buoni rapporti con don Ciccio, quindi si concluse il primo incontro alla masseria. Una domenica sera Rocco arrivò.
Entrò in casa e disse: – “Sta begnu bu fazzu ’na visita” -.
Al che massara Tiresia rispose: – “E ce boi ca venisti”? -.
– “Sta begnu cu te dicu ca sta bogghiu figghiata” -.
E massara Tiresia di rimando: – “E se quiddha te vole, ieu cu mille manu”! -. ‘
Alcuni giorni dopo si presentarono i genitori per “ppuntare lu matrimoniu” e massaro Peppe assicurò che si sarebbe celebrato presto: il raccolto del tabacco si presentava buono e promise che sarebbe servito tutto per il matrimonio di Concettina.
Il tempo passava e le cose andavano bene. Rocco tutte le sere andava alla masseria. Passava la serata in un angolo della grande stanza seduto accanto a Concettina a bisbigliare parole affettuose sotto l’occhio vigile di massara Tiresia che fingeva di fare la calza, ma in effetti tendeva debolmente con l’indice il filo sul ferro che non sempre riusciva a passare perchè il sonno la vinceva e le mani ripiegavano lentamente in grembo. I due colombi, allora, approfittavano per prendersi qualche libertà, ma erano attimi perchè la massara, conseguentemente, ciondolava con tutta la
persona e, sentendosi cadere, si svegliava di soprassalto, dava uno sguardo fugace ai due e ricominciava il movimento delle mani.
Massaro Peppe, invece, sonnecchiava vicino al camino in maniche di camicia, col cappotto sulle spalle e l’immancabile coppola.
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Arrivò luglio e il tabacco era uno spettacolo.
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Una mattina però il sole era molto caldo e non c’era un filo di vento. Le campagne, coloratissime, non sembravano vere, ma immagini fisse e immobili: pitture più che realtà. Le cicale, uniche presenze impazzite, assordavano col loro canto rauco e continuo. L’aria da fornace avvolgeva tutto e quella stasi totale era presagio di sventura.
Infatti, verso mezzogiorno, improvvisamente, si sollevò un vento fortissimo che aggirò il paese e le campagne vicine e, subito dopo, una grandinata fittissima e violenta copri la terra di un manto bianco luccicante e granelloso.
Durò pochi minuti, ma bastarono per distruggere uomini e cose; poi la “punentata”, come inaspettatamente era venuta, “se la terau lu mare”mentre il sole ritornava a splendere sulla campagna devastata e martoriata.
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Ricordo che stavo dando lezione ad un ragazzo rimandato in italiano.
Improvvisamente il cielo si oscurò e un frastuono fortissimo ci fece correre ai vetri. La grandine cadeva fitta, saltellava sull’astrico disegnando semicerchi immaginari e si spandeva accumulandosi agli angoli.
Mia madre si affaccio dietro di noi e, come se valutasse le conseguenze di tanta furia, annientata e rassegnata, disse: –
“De viernu e d’estate, a du pigghia…pigghia!” –
Restammo a guardare attoniti. Il sole era ritornato a splendere e già la grandine si scioglieva e scendeva lentamente in rivoletti. Uscimmo. L’aria era finalmente rinfrescata. Per la via la gente commentava riunita in capannelli. Un uomo in bicicletta, veniva dalla campagna, e, continuando ad andare, con espressioni lamentose e disperate, annunciava a tutti la distruzione del raccolto e conseguente miseria.
– “Ohimmena! Strusse tuttu! Nci purtau tuttu! Focu nosciu, simu rruvinati Comu facimu qu’annu”?! –
Mi scossi come per un presentimento, e la mia mente andò alla masseria.
Presi la bicicletta e corsi quanto più potei. Lungo la strada i danni erano ingenti: le campagne devastare, le povere piante del tabacco piegate, stroncate. Ad alcune era rimasto solo il fusto e le foglie pendevano lacere e distrutte. I contadini giravano disorientati fra i filari, chiamandosi, imprecando, piangendo. Giunsi alla masseria e tutt’attorno era desolazione. La vasta piantagione di tabacco, orgoglio di massaro Peppe, non esisteva più. Le piante erano a brandelli e per terra uno strato di foglie maciullate. La scena stringeva il cuore, ma fu ancora più triste quando scorsi massaro Peppe, il figlio e gli altri, immobili e muti, guardare ciò che era rimasto a compensare le loro fatiche. Mi avvicinai lentamente; mi unii a loro e al loro dolore senza fiatare, dimostrando così la mia solidarietà. Poi sentii un pianto disperato che proveniva dalla casa. Concettina, in piedi, vicino al telaio, con la fronte poggiata sulle mani incrociate, piangeva sconsolatamente, da stringere il cuore, mentre massara Tiresia tentava inutilmente di confortarla.
La grandine aveva colpito anche lei: aveva distrutto la sua gioia, il suo entusiasmo.
…Era nata disgraziata, non poteva avere bene nella vita!…Ed ora la “dota” come l’avrebbe finita?…Che cosa avrebbe esposto il giovedì prima delle nozze? Tutti: parenti dello sposo, amiche, tutto il paese doveva andare a vedere il suo corredo; “panina diciotto”, che pochi ce n’erano stati così abbondanti e ricchi di pizzi e di merletti! No, non si sarebbe più sposata, sarebbe rimasta “zita” per sempre pur di non subire la vergogna di essere criticata “pe’ miseria”. In quel mentre, quasi di corsa, arrivò Rocco che, vedendo tanto disperazione, rallentò sulla porta e, con un fil di voce, mormorò:
– Concettina… – Lei, più che vederlo, lo sentì e, tendendo un braccio per rafforzare le sue parole infierì:
– “Vanne, vanne ca nu te vogghiu cchiui”! –
Allora Rocco si avvicinò timidamente e tentò a bassa voce: – “Ieu te pigghiu nuta”!…
– “Vanne, vanne”…‘- continuò Concettina tra i singhiozzi e non c’era verso di calmarla.
Entrò massaro Peppe e, senza dare molta importanza ai lamenti della figlia, sedette su uno scanno e con voce pacata sentenziò: – “Nun ete la prima e mancu l’urtima fiata. Ieu su grande e n’aggiu viste tante! Mo vitimo ci la vince: quiddhu o ieu”! –
E il mattino dopo, tutti di famiglia, uniti più che mai, si rimisero al lavoro; e fu un lavoro estenuante, da mattina a sera e a‘ volte anche di notte: e la “dota” di Concettina fu pronta nei termini stabiliti!
***
Poi, in una mite e luminosa giornata della primavera seguente, la grande festa.
Sin dal mattino presto la masseria era in gran fermento per i preparativi. A metà mattino lo spazio antistante la casa si riempì di parenti e amici vestiti a festa venuti per accompagnare la sposa in chiesa. Vociavano, ridevano, scherzavano per ingannare l’attesa, quando, quasi inaspettata, sul portone grande comparve Concettina col suo abito bianco: era bellissima, ma impacciata e intimidita. Tagliò il nastro intrecciato di edera e fiori teso da due amiche e usci dalla casa che l’aveva vista nascere per andare incontro al suo sposo tra battimani, esclamazioni di auguri, benedizioni.
Un leggero venticello ondulava l’ampio abito e il velo che era stato fermato sul capo da una coroncina di fiori d’arancio freschi. Massaro Peppe, per la prima e ultima volta, non curante delle conseguenze, li aveva raccolti personalmente, scegliendoli fra i più belli per onorare al massimo la sua ultima creatura, pupilla del suo cuore.
Il lungo corteo, chiassoso e ilare, si snodava tra i campi in fiore lungo la strada che conduceva al paese e che in quei tempi era solcata dai carri e poco agevole. Infatti, a tratti si scomponeva per ricomporsi subito dopo e procedere a passo più svelto.
In paese la gente era sulle porte per vedere la sposa e, tra lanci di fiori, tutti auguravano felicità e benessere. l bambini correvano festosi, introducendosi nel corteo e incrociando le coppie.
Gli invitati li cacciavano via, ma essi riuscivano sempre a sgusciate: a piedi nudi e magliette sbrindellate, veloci e allegri, saettavano come rondini impazzite. A modo loro partecipavano alla gioia di tutti e, poi, sapevano che all’uscita della chiesa c’era una piccola cosa dolce anche per loro. ln quei tempi era tanto raro mettere qualcosa di buono sotto i denti: bisognava aspettare…la sposa.
Il corteo lentamente sali i gradini della chiesa e fu ingoiato dalla grande porta.
Sul sagrato rimase la “picciunara” ed era tutto un chiasso, uno spingersi, un rotolare, un litigare.
Poi uno scampanio festoso annunciò che gli sposi stavano per uscire e una pioggia di augurali “candellini” volò per l’aria e fu così cospicua che ci si dovette difendere facendosi scudo con le mani. Tutti erano felici in quella apparente confusione ed evviva e auguri salivano al cielo mentre la “picciunara” carponi si faceva strada fra le gambe degli invitati per raccogliere quanto più poteva di quei piccoli colorati confetti, schiacciati e scheggiati, dal sapore di zucchero e cannella.
Gli sposi finalmente si avviarono mentre io, rimasto sui gradini della chiesa, ancora un pò intontito dal chiasso e dagli avvenimenti, li seguivo con sguardo compiaciuto e animo lieto: mi sentivo felice, come tutti, della loro felicità. Allora il paese era una grande famiglia: le gioie e i dolori di uno erano le gioie e i dolori di tutti.
Tratto da: “Il tempo non cancella” di: Angiolino Cotardo
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