Da molto tempo non andavo alla masseria a trovare massaro Peppe. Ne avevo proprio voglia. Andai in cerca della bicicletta sperando che fosse libera perché era l’ unica per tutta la famiglia. Fortunatamente la trovai appoggiata al muro accanto alla porta di casa. Mio fratello era già tornato da campagna, quindi, almeno a lui non serviva più. Saltai in sella e, pedalando vigorosamente, in pochi minuti raggiunsi la masseria. C’ era grande fermento e massaro Peppe a stenti conteneva la sua rabbia. Durante la notte avevano rubato le galline e Lupo il grosso pastore, guardiano della masseria, non aveva abbaiato. Chi poteva essere stato? Massaro Peppe se lo ripeteva di continuo facendo mille supposizioni e sospettando di tutti. Insisteva anche con la moglie nella speranza che potesse aiutarlo a capire. Alla fine massara Tiresia stanca di tanta sequela gli consigliò: – “Vanne alla Tuppitisa, quiddha vite puru allu scuru!” -.
* * * Questa era la “macara” (megéra) del paese. Brutta, vecchia e cenciosa aveva i capelli legati in alto sul capo in un “tuppo” tondo che faceva pensare ad una cipolla, fermati a malapena con diverse forcine e mai pettinati le ricadevano sul viso e sul collo a ciocche untuose e piene di terra. Fra di esse si intravedevano due occhietti indagatori, leggermente strabici e cisposi, ma alquanto ambigui. La si poteva trovare a casa solo a tarda sera, perché il giorno andava in giro per le campagne col suo barroccio sconquassato tirato dalla fedele asinella. Andava in cerca di contadini per vendere loro una polverina gialla che, diceva, li avrebbe salvati dal morso velenoso dei serpi e delle vipere. Quale dimostrazione della bontà del suo prodotto portava con se dei serpi chiusi in una cassetta e al momento ne estraeva uno per farsi mordere e dimostrare che non le succedeva niente perché prima aveva preso l’ “erba serpentina”. La preparava essa stessa servendosi di erbe particolari di cui lei sola conosceva l’ esistenza e lei sola sapeva dosare. La distribuiva per pochi soldi o qualche provvista assieme all’ immaginetta di San Paolo guaritore dei morsi dei serpi. I contadini non tardavano a farsi convincere, coinvolti dalle espressioni drammatiche della fattucchiera e dall’ impressionante mimica della quale la furbona si serviva per dimostrare ai malcapitati le disastrose conseguenze se non avessero usato il suo prodotto. * * * Massaro Peppe accettò il consiglio della moglie, poi si rivolse a me e disse: – Vuoi venire? – Non ci pensai due volte e mi avviai, mentre lui, senza aspettare risposta, prese la cappa e, con gesto deciso, la fece roteare attorno al suo corpo poggiandola sulle spalle e passando poi il lembo destro sulla spalla sinistra, risultando così completamente avvolto. prese poi un sacchetto con “menzu stuppeddhu” (circa due chili e mezzo)di grano che nel frattempo massara Tiresia aveva preparato, si calò la “coppula” (il cappello) sugli occhi e mi raggiunse. Arrivammo che era quasi già notte. La casa della Tuppitisa era era fuori paese: una catapecchia sfasciata e rabberciata alla meglio da tutte le parti; il tetto, spiovente da un lato, era semisfondato e si manteneva per miracolo con puntelli di fortuna; i muri, pietra su pietra, avevano perduto l’ intonaco, e avevano cento sfumature: dal marrone della terra al grigio della pietra, al verde dell” umido. Tutt’ attorno, accumulati e in disordine, oggetti tra i più disparati: spalliere arrugginite, sedie spagliate, “vozze singate”, “nu mienzu limbu”(recipienti di terracotta lesionati o rotti) poggiato inclinato e pieno d’ acqua piovana, messo in quella posizione per raccogliere la pioggia e far bere gli animali, e per fino una ruota di carro e un vecchio aratro. Ci avvicinammo, il cane, malnutrito a bella posta perché infierisse contro i visitatori difendendo il suo poco mangiare e, quindi, lei da qualche maleintenzionato che, avendo capito gli inganni delle sue chiacchiere, potesse andare a farglieli pagare, incominciò ad abbaiare come un forsennato. Dall’ interno giunse una voce che dava l’ impressione di un grugnito e tradotta significava: “vegniu!” (vengo) e immediatamente dopo la porta si socchiuse e venne fuori prima una lanterna accesa e poi la testa di Tuppitisa: Mio Dio che essere ripugnante! Una specie di Proserpina ammiccante che tentava di capire chi fossimo. Massaro Peppe si fece conoscere lei disse: -“Veni” (vieni) – e aggiunse – “Vane chianu cu nu cati” -. Infatti, raggiungere la porta era una vera impresa. Il tratto era breve, ma impervio: “cuti” (scogli) di tutte le misure si alternavano a pietre ed erbacce fittissime cresciute nelle poche fessure di terra. La porta era sgangherata, ricavata da fasce di tavole inchiodate, ormai del colore indefinibile del legno rimasto troppo tempo al vento e alla pioggia; il limitare della porta era consumato al punto da formare una conca al centro che lo rendeva quasi nullo. Entrammo. La stanza era buia e maleodorante, illuminata dalla sola lucerna che la Tuppitisa aveva in mano. Dappertutto si immaginava disordine e sporcizia. Ci invitò a sedere vicino al tavolo. Si inciampava ad ogni passo provocando suoni ed urti diversi, si poteva immaginare che sul pavimento ci fossero sparsi recipienti di vario genere. Sedemmo su due cataste di stracci, forse sacchi. Al di là del tavolo prese posto la Tuppitisa. Mi fece senso, e sarei scappato via se la curiosità di quanto stava avvenendo non fosse stata più forte dell’ impressione che provavo. Massaro Peppe cominciò: – “Cummare” (commare) so che tu, quando vuoi indovini tutto. Mi hanno rubato le galline e il cane non ha abbaiato. Voglio sapere chi è stato! – Tuppitisa cominciò a fare la difficile: – “Mbè! mo, nduvinu tuttu!…cose de vecchia…Cacciu lu malocchiu…cconzu l’ osse, ma, nduvinare moh!?” – ( “Bè adesso indovino tutto! cose di vecchia…Caccio il malocchio…Aggiusto le ossa ma, devo indovinare adesso!?”-) Massaro Peppe capì, calò la mano sotto la cappa, estrasse il sacchetto di grano e lo poggiò energicamente sul tavolo. Tuppitisa, allora, ebbe una smorfia di soddisfazione, si alzò lentamente e andò a sedersi sotto il camino. Era questo un grosso buco affumicato e sporco dove bruciavano senza fiamma bucce di mandorle e noccioli di ulive. Finalmente capii da dove veniva quel tanfo disgustoso e indefinibile. Tuppitisa guardò un attimo il fuoco, poi con fare drammatico volse gli occhi verso il soffitto ove pendeva una “fietta” (treccia) di agli della quale si scorgeva solo la parte più bassa ondeggiare lentamente e, con aria ispirata, quasi a fare intendere che interpretava un oracolo, sentenziò con austerità: – “Cu l’ acqua e l’ eju aprime la via, commu l’ aratru taja l’ erva!” (“Con l’ acqua e l’ olio aprimi la via, come l’ aratro taglia l’ erba!”) – Che vuoi dire? – sbottò stizzito massaro Peppe. Allora Tuppitisa, non curando l’ insofferenza di questo e simulando astrazione, si alzò dal camino e lentamente tornò verso il tavolo. Prese un piatto e lo riempì d’ acqua; poi prese una lucerna e ne accese lo stoppino e, infine, immerse per due volte l’ indice nell’ olio e ne fece cadere due grosse gocce nell’ acqua che vennero a galla perfettamente rotonde e ravvicinate dando l’ impressione degli occhi di un gatto. – “Lu vitti, lu vitti!” (“l’ ho visto, l’ ho visto!”) – urlò con gli occhi sbarrati e l’ indice puntato verso il piatto. Io feci un salto per l’ improvvisa e inaspettata veemenza. – Ma chi? – sbottò irritato e ansioso massaro Peppe. La vecchia continuò imperterrita le operazioni: si segnò tre volte, smorzò la lucerna schiacciando la fiamma tra pollice e indice e infine con fare austero si avvicinò a massaro Peppe e gli farfugliò qualcosa all’ orecchio. Questo, suggestionato dall’ atmosfera, credette di capire il nome di chi aveva sospettato ed esternò un’ espressione di incredulità e conferma allo stesso tempo. La furba megera, colse quell’ attimo e caricò la dose: – “guardate de ci t’ è cucchiu”! – disse e completò la sentenza con un assenso continuo e regolare della testa. Massaro Peppe un pò disorientato ma contento, estrasse dal taschino della “burrica” due monete e le fece cadere sul tavolo. Tuppitisa, istantaneamente, se ne impossessò e per dimostrare la sua gratitudine cantilenò a mo’ di cantastorie: – “pozzi avire tanta furtuna, quanta nde mantene la terra…”(che tu possa avere tanta fortuna , quanta ne mantiene la terra…”). Poi si rivolse a me che sembrava vedesse per la prima volta, mi prese la mano destra, la rivoltò dal palmo e, tenendola ben aperta disse: -“Veni figghiu, te visciu la furtuna!” (vieni figlio ti vedo la fortuna!”) -. Osservò intensamente, scrutò nei particolari, poi teatralmente scandì: – “Te… visciu…chiaru…lu serpe te la mala sorte te tuccau, sali su lu cavaddhu de San Giorgiu e tienilu luntanu. Mutu ha camenare: stompa la malerva de giurnu e nu temire la notte” (Ti vedo chiaro il serpe della mala sorte ti ha toccato, sali sul cavallo di San Giorgio e tienilo lontano. Molto devi camminare: pesta la malerba di giorno e non temere la notte”) – . Lasciò quindi cadere la mia mano e, come se avesse preso una decisione improvvisa, riprese la lucerna e ci accompagnò fino alla strada senza parlare. Io ero interdetto, non avevo capito niente e lo dissi a massaro Peppe. Questi si fermò e mi guardò fissamente. Anche lui era soprappensiero e un tantino perplesso. Non mi rispose. Ci avviammo senza parlare e raggiungemmo la masseria avvolti in un alone di impenetrabile mistero che non ci aveva convinti, ma del quale non riuscivamo a liberarci. Tratto da: “Il tempo non cancella” di: Angiolino Cotardo |