L’ “Acchiatura”

Ero andato a Lecce per l’iscrizione alla scuola e, passando per una stradina, avevo visto in un vecchio portone un insieme di cianfrusaglie delle più disparate. C’era di tutto e tutta roba usata. Mi fermai a guardare. Attirò la mia attenzione un cappotto di seconda mano ancora in buone condizioni, solo un pò sdrucito ai polsi e al collo. Non costava molto, ma io non avevo tutto il denaro per comprarlo. Avevo dato lezioni private per tutta l’estate e avevo rag- granellato una sommetta che però quella mattina si era assottigliata alquanto per le tasse scolastiche e l’acquisto di alcuni libri. Tornai, quindi, a casa con la speranza che mia madre potesse darmi il resto. La trovai che sfaccendava in cucina. Era stanca. Era appena tornata dalla fabbrica e stava preparando qualcosa da mangiare per noi. Timidamente mi avvicinai e simulando disinvoltura le raccontai di aver visto il cappotto, poi, con circospezione, usando il condizionale, le chiesi il resto dei soldi.
– “A cce te senve?” – fu la risposta – “Cce sinti lu signu- rinu?”
– Ed io: – I miei compagni vanno a scuola col cappotto!
– E lei: – “Quiddhi su de Lecce e tie de paise” -.
– E poi – tentai di commuoverla – la mattina quando vado a Corigliano fa freddo e a piedi ci vuole quasi un’ora. D’inverno mi sento gelare e i libri mi cadono dalle mani -.
– “Te fazzu na sciarpa a fierri e te basta!” –
– Ma, mamma… – cercai di insistere.
– “Vanne, vanne ca lu cappottu te lu catti quandu acchi l’acchiatura” -.
E se ne andò decisamente dall’altra parte della stanza. Era inutile insistere, in fondo sapevo che aveva ragione. Per mandarmi a scuola faceva grossi sacrifici; ma neanche i miei erano pochi! Mi alzavo all’alba per raggiungere la stazione di Corigliano e prendere il treno per Lecce e al ritorno arrivavo a casa quasi alle tre infreddolito e stanco; mangiavo quel pò che la mamma mi preparava e l’unico pregio che aveva era nell’essere caldo, ma a volte non era neanche caldo perchè la mamma, che era imballatrice nella fabbrica di tabacchi, non sempre riusciva a tornare a casa in tempo per riscaldare quanto aveva preparato al mattino prima di andare al lavoro. Dopo aver mangiato davo lezioni private e poi, finalmente, potevo mettermi a studiare. A volte finivo a notte inoltrata. Avevo rinunciato a tante cose per poter andare a scuola, ma quella volta la rinuncia al cappotto, che a me pareva un diritto, era proprio un’ingiustizia, una cattiveria. Uscii sbattendo la porta. Corrucciato in volto, le mani in tasca, gli occhi alla strada polverosa, a passo svelto mi avviai alle “Serre”. La via era piena di pietre ed io tiravo calci ora a questa ora a quella, ma la rabbia non mi passava. Ero amareggiato, mia madre che sempre mi aveva capito e aveva cercato ad ogni costo di accontentarmi, proprio mia madre, questa volta, era stata inflessibile. Con questo stato d’animo arrivai alla masseria. Sembrava deserta. I miei occhi erano ar- rossati non solo per la polvere che il vento sollevava, ma anche per le lacrime contenute. Entrai nella grande cucina; il fuoco scoppiettava nel camino e mi dette un senso di calore e di conforto. Avevo bisogno di sfogarmi, di raccontare a qualcuno quanto mi era successo. In un angolo, accostata alla brace, bolliva una “pignata” di piselli che diffondeva nell’ambiente il suo gradevole profumo. Massaro Peppe era solo. Seduto accanto al camino, con le gambe allungate verso il fuoco, fumava e riposava. Mi sedetti accanto a lui in silenzio. Massaro Peppe, che mi conosceva bene, capì che c’era qualcosa che non andava e, senza voltarsi, mi chiese:
– Che t’è successo?
– Gli raccontai tutto e conclusi:
– E poi, sai che m’ha detto? che avrò il cappotto quando troverò l’”acchitura”!
– Massaro Peppe non si mosse, ma una risatina di comprensione, a stenti contenuta, gli salì dall’anima ed era diretta sia a me che a mia madre, mormorò:
– L”‘acchiatura”… l’”acchiatura”…
– Ma l’ha mai trovata nessuno? – domandai io ingenuamente. Massaro Peppe sorrise ancora guardandomi affettuosamente, poi si tolse la pipa dalla bocca e disse:
– Ora ti racconto la storia dell’”acchiatura”, così, non pensi più al tuo cappotto.
***
– È una storia molto antica e mi è stata raccontata da ’Ndrea, famiglia dei Barone. Tu non l’hai conosciuto perchè è morto prima che nascessi. ’Ndrea una notte sognò suo nonno che, con fare evanescente e misterioso, gli offri l’opportunità di soddisfare un suo immenso e antico desiderio: diventare ricco come il Barone. Uscito dal nulla, avvolto dalle tenebre, così si espresse: – Alle spalle del castello, dopo l’ultima casa, all’inizio della stradina di campagna senza uscita, c’è un piccolo spiazzo con una colonna antichissima. A tre palmi da questa, sulla sinistra, c’è sepolta l’acchiatura” -.
– Ma cosa troverò? – chiese ’Ndrea.
E il nonno: – Il tesoro del Barone: una chioccia d’oro con i pulcini; però – aggiunse – per poterla ottenere occorrono tre condizioni indispensabili: una notte di luna piena, tua figlia vergine e il piccone per scavare. L’operazione dovrà svolgersi a mezzanotte perché i colpi del piccone dovranno coincidere coi dodici colpì dell’orologio della piazza. Se i dodici colpi di piccone, corrisponderanno ai dodici colpi dell’orologio, a mezzanotte in punto troverai l”‘acchiatura” che verrà fuori solo quando, in cambio, tua figlia scenderà nella fossa-. ’Ndrea si svegliò sudato e ansante, ebbe un attimo di smarrimento, ma poi decise di preparare il piano nei minimi particolari. Senza farsi notare, si aggirò più volte attorno alla colonna, stabilì il punto preciso dove scavare, aspettò la luna piena che in quell’anno cadeva il 29 giugno e, all’ultimo momento, con promesse allettanti, convinse la figlia più piccola a seguirlo. Quindi, verso la mezzanotte del giorno stabilito, piccone in spalla, seguito dalla figlia, si diresse verso il luogo che a momenti lo avrebbe reso felice e fortunato.
A mezzanotte in punto l’orologio cominciò a battere tocchi regolari e ’Ndrea, scrupoloso, preciso, batteva all’unisono col piccone. Verso la fine, sollevò gli occhi per assicurarsi che la figlia fosse pronta per il cambio, ma, appena la guardò, lasciò cadere il piccone nella fossa perdendo il ritmo proprio alla conclusione. Si alzò e con slancio la abbracciò e le chiese perdono.
Aveva capito: per quanto enorme fosse stato il tesoro del Barone non poteva valere l’amore di sua figlia, la più piccola, la più bella, la più pura -.Tratto da: “Il tempo non cancella” di: Angiolino Cotardo

Questo tasto è disabilitato!