Era il giorno di Pasqua e dappertutto si sentiva aria di festa. La giornata era mite e tranquilla e per le vie e nelle case regnava la pace.
Nel pomeriggio c’era gran fermento, tutti si preparavano all’avvenimento di quella giornata: era consuetudine che tutto il popolo andasse a prendere la Madonna Arcona dalla sua chiesetta in campagna e la portasse in processione alla chiesa grande per festeggiarla il giovedì seguente. Anche io avevo messo il vestito della festa e mi apprestavo a uscire quando mia madre gridò dalla cucina: - “Sta bbai alla Matonna”? - Voleva assicurarsi che lo facessi. Risposi di si e uscii chiudendo la porta.

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Per la strada c’era tanta gente: intere famiglie, gruppi di ragazzi e di giovani.
Gli uomini, come si usava, indossavano vestiti neri di vigogna e camicie bianchissime di bucato; gli anziani senza colletto e senza cravatta. Alcuni avevano vestiti un pò stretti perchè, in quell'epoca, il vestito della festa era quello delle nozze e poi, si sa...il tempo passa! Le donne, sempre secondo l’uso, avevano vestiti portati in dote, ma rimodernati, e il fazzoletto variopinto sulle spalle o sulla testa. Molte erano vestite di nero e avevano anche il fazzoletto nero per un recente lutto in famiglia; e, poichè il lutto durava quattro anni e, quando ne finiva uno ne cominciava un altro, le donne da una certa età in poi, specialmente se sposate, vestivano sempre di nero. La nota di colore la davano i bambini: i maschietti con vestiti di velluto di vari colori e la camicia bianca ricamata passata dai fratelli più grandi, i quali mettevano per la festa il vestito della Prima Comunione. Le bambine, invece, avevano vestiti di organdisse rosa o celesti piuttosto sgargianti nei colori e sontuosi nella fattura; erano arricchiti da numerosi volants fermati da mazzetti di fiori di stoffa o nastrini di raso. Sulla testa, per trattenere i capelli, un grosso fiocco dello stesso colore del vestito. Le mamme ci mettevano tutte se stesse nel confezionare questi vestitini e lo facevano di nascosto perchè fosse una sorpresa per tutti e perchè tutti ne restassero meravigliati. Era un lor desiderio recondito dare alla figlia tutto ciò che a loro sarebbe piaciuto, ma che non avevano avuto.

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La via che conduceva alla chiesetta della Madonna Arcona era una via di campagna stretta, tortuosa e polverosa; fiancheggiata da muri a secco e secolari ulivi. La gente si accalcava camminando a passo svelto e alcuni, specialmente i giovani, senza ragione, cercavano di superare gli altri. Per l’aria aleggiava un brusio uniforme: non c‘erano voci che sovrastavano, traspariva contentezza e serenità. Raggiungemmo il piazzale antistante la chiesetta; i bambini giocavano a rincorrersi, le donne, con la corona in mano, pregavano, gli uomini attendevano. In un gruppo vidi massaro Peppe e mi avvicinai, fu contento di vedermi e mi invitò a stare con lui. Finalmente, dopo lunga attesa, Don Antonio comparve sulla porta della chiesa. Mi sembrò un pò più curvo e più bianco dello scorso anno, e si muoveva con lentezza. Dietro di lui ondeggiava la Madonna. Molti volevano portarla e c’erano discussioni per organizzare i turni, anche perchè dovevano essere uomini della stessa altezza e delle stesse capacità muscolari. Ad un certo punto la si vide sollevare in alto, finalmente in equilibrio e uscire dalla chiesa. Si compose, quindi, la processione. La aprivano tre chierichetti dei quali quello di centro reggeva la croce, poi le donne e i bambini in due file indiane sui margini della strada. Alcune recavano ceri con stampini colorati che raffiguravano la Madonna: cantavano: Mira il tuo popolo... Alla fine delle due file, al centro, Don Antonio con la pianeta bianca. Poi la Madonna in alto su tutti, ondeggiante e altera con gli occhi fissi e benevoli rivolti verso i suoi figli, circondata dagli uomini che dovevano alternarsi al suo trasporto. Ai quattro angoli della statua, quattro uomini con grossi ceri in mano o sulle spalle per conto di qualche devota. Seguiva la banda con gli ottoni lucidissimi, che emanava note altisonanti, quasi squillanti producendo motivi festosi che riempivano il cuore di gioia e invitavano a camminare con scioltezza. Da ultimo gli uomini in gruppo o alla spicciolata seguivano, mormorando fatti avvenuti, proponendo affari, chiedendo consigli, sfogando contrarietà.

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Mi accodai a massaro Peppe e, anche lui, come Don Antonio, mi sembrò un pò invecchiato. Camminava lentamente a lunghi passi, un pò astratto, come sempre, guardava oltre la realtà che lo circondava. Seguiva forse il suo mondo interiore intrecciato di ricordi e di passato che egli esprimeva nel suo vivere circoscritto, ma profondo. Gli avvenimenti, ai quali doverosamente partecipava, ravvivavano semplicemente quanto egli istintivamente aveva dentro di se. Gli camminavo vicino senza parlare, osservavo la campagna che sfoggiava un verde smeraldino vivissimo: spettacolo unico del mese di aprile perchè poi piano piano la natura ingiallisce e secca. Proprio come gli uomini!...Meditai tra me e me. Ad un certo punto la via si restringeva, proprio dove un secolare ulivo con il suo tronco contorto e vuoto interrompeva il muro a secco e si sporgeva sulla strada quasi a simulare un inchino coi suoi rami verde argento.
Massaro Peppe me lo indicò e: - Vedi - disse - ogni volta che la Madonna passa, i suoi rami, quasi in segno di rispetto e devozione, sfiorano il suo mantello azzurro. Ebbene, quell’albero è sempre carico di frutti anche quando gli altri non ne hanno -.

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Eravamo quasi arrivati alle prime case del paese e già imbruniva,quando ad un tratto vidi un’ombra bianca fra gli ulivi. Era un grosso cane randagio che, spaventato dalla gente, correva lontano. Le ultime luci della sera e la mia immaginazione mi fecero pensare ad un fantasma. Lo dissi scherzando a massaro Peppe che, accennando una risatina bonaria, rispose: - Fantasmi non ce ne sono più da quando “ziu Vicenzu” uccise l'ultimo! - e continuò a sorridere. Intanto eravamo entrati in paese e stavamo incrociando la strada che porta alla masseria, quando massaro Peppe si fermò e disse:
- Io torno a casa, sono stanco e domani debbo alzarmi presto perchè si ricomincia il lavoro -.
Poi si rivolse verso la Madonna che si allontanava, si fece il segno della croce e baciò l’indice della sua mano. Dopo si incamminò per la sua strada e io lo seguì con |’intenzione di accompagnarlo per un pò e sapere la storia del fantasma. Mi aveva incuriosito molto il fatto che ce ne fosse stato un ultimo e che fosse stato ammazzato.

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Camminammo per un pò senza dire niente, poi, mi feci coraggio e gli chiesi com’era andata la storia del fantasma. Massaro Peppe sorrise, aveva capito che volevo sapere qualcosa, sedette su un muretto e mi invitò a imitarlo.
- “Ziu Vicenzu”, fratello di mia madre era un tipo mingherlino e deboluccio e, per sua sventura, aveva sposato un donnone alto e robusto con un temperamento forte che non ammetteva repliche. “Ziu Vicenzu”, era mite e di poche pretese; l’unico suo svago era di passare un’ora la sera alla bettola. Ma anche questa breve parentesi serale era accompagnata da continui rimbrotti dell’insopportabile zia Peppa. Le bettole, in quell’epoca, erano piccoli tuguri, male illuminati con le pareti che luccicavano per l'umidità. Gli uomini le frequentavano dopo il lavoro per passare un pò di tempo in compagnia e giocare a carte e a bere. La bettola che frequentava ziu Vicenzu era nel vicolo delle “Site”, adiacente al castello.
Una sera nella bettola si parlava del barone Don Costantino, uno dei più malvagi e arroganti che il paese aveva dovuto subire. Qualcuno raccontò, per l'ennesima volta, una vecchia storia che si tramandava da padre in figlio: Don Costantino, che non conosceva altra legge se non quella della prepotenza e della sopraffazione, accecato dalla superbia, volle sfidare nostro Signore. Durante la festa del Corpus Domini, aspettò che la processione passasse davanti al castello e, quando il sacerdote fu quasi all’altezza del balcone, ordino ai suoi servi di portare un vaso da notte sul quale, per spregio al Santissimo, sedette comodamente. Ma non aveva fatto i conti con Lui, perchè fu punito per la sua alterigia e rimase dannato nei secoli: la sua anima non ebbe più pace e durante la notte vagava attorno al castello. Non era facile vederla perchè compariva e scompariva a tratti. Quella sera “ziu Vincenzo” aveva bevuto più del solito e, sentendo arrivare il sonno, salutò gli amici e si diresse verso casa. Ma, ondeggiando e sbattendo, si disorientò e cominciò a girare attorno al castello. Ad un tratto gli parve di vedere un bianco fantasma che procedeva ovattato e quasi evanescente. Indietreggiò terrorizzato, ma inciampò e andò a cadere su un cumulo di tufo. Si rialzò a stenti e per istinto riuscì a trovare la strada. Di corsa, come potè, la percorse, trovò la casa, vi si infilò dentro e sbarrò la porta.
Non fece parola a nessuno, ma si sentiva perseguitato, specialmente di notte. Una sera, esasperato, decise di affrontare il fantasma e di mettere fine al suo incubo una volta per tutte. Uscì da casa con un bastone, lo nascose dietro il cumulo di tufo e, come al solito, andò alla bettola del vico delle “Site”. Anche quella sera, tra una partita e I’altra, bevve abbastanza, ma non era molto sbronzo. Aspetto che tutti fossero andati via e uscì per ultimo. Era passata la mezzanotte, quindi era più tardi delle altre sere. Si diresse al cumulo di tufo, prese il randello e si apposto. ‘Per la strada non c’era anima viva, ma dopo un poco scese una leggera nebbia. Ad un tratto un’ombra attraverso l’opaca luce del fanale e si diresse verso di lui. “Ziu Vicenzu” uscì immediatamente dal nascondiglio e alzò il bastone per colpire, ma non fece in tempo perchè se lo sentì strappare dalle mani per risentirselo poi addosso sotto forma di scarica di legnate.
- “Jutu! Jutu!”... - cominciò a gridare con quanta voce aveva in gola - “lu fantasma me sta ccite!” -
Al che rispose una nota voce che urlava più di lui:
- “Disgraziatu! Mbriacu! Rruvina de la casa! Rruvina de la famiglia! Te lu fazzu vitere ieu lu fantasma! Li mbriachi commu a tie vitenu li fantasmi!”
- Era la voce inconfondibile di zia Peppa che “ziu Vicenzu” riconobbe subito e quindi gli convenne filarsela quatto quatto a casa senza proferir parola.
Da quella sera non vide più fantasmi perchè per paura...di sua moglie, si ritirò prima della mezzanotte e della ubriacatura finale.
Alla bettola, invece, i racconti si erano aggiornati: non si parlava più delle bravate di Don Costantino, ma delle disavventure dell’amico “Vicenzu” -.

Tratto  da "Il tempo non cancella" di: Angiolino Cotardo




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