Antonuccio, come io lo chiamavo, era uno dei tanti miei alunni. Si fermò in terza elementare (in quei tempi c'erano gli esami per il passaggio dal primo al secondo ciclo). Fu bocciato agli esami perché aveva fatto molti errori al dettato, il tema breve e scarso di pensieri e il lessico lasciava molto a desiderare. Agli orali non seppe dire nemmeno quale fosse la capitale d'Italia. L'unica sua abilità era nel calcolo, era rapido e usava le dita come se fossero il pallottoliere. Poi gli anni passarono e anch'egli emigrò in Svizzera. L' ho rivisto dopo vent'anni e vent'anni sono tanti! Il tempo e il lavoro stressante gli avevano imbiancato i capelli e avvizzito il volto, ma sostanzialmente aveva conservato il carattere di quando era ragazzo, simpatico, allegro e sempre affettuoso. Volle portarmi a vedere la casa che con tanti sacrifici aveva realizzato anno dopo anno. Era una bella villetta non ancora terminata, circondata da un giardino già ricco di piante. Entrammo e dentro era ancora più bella. Gli ambienti erano ampi, illuminati e arricchiti di arcate e decorazioni. Mi congratulai con lui, ma mi accorsi che il suo sguardo era pervaso da profonda tristezza. La moglie, vicino a lui, lo seguiva con indifferenza: era una nordica dalla pelle bianca e i capelli biondi. Antonuccio cercava di farla partecipare alla sua gioia, ma lei sorrideva senza interesse. Poi si rivolse a me con desolazione: - A lei non piace qui. Ma io una casa cosi l' ho desiderata da quando ero bambino. La mia famiglia viveva in due stanze ed eravamo dieci figli. La mamma ci mandava per la strada... la strada era la nostra casa! - poi astratto, quasi parlando a se stesso: Ma io qui tornerò, non so quando, non so come, ma tornerò!. Non è facile immedesimarsi in un uomo che ama la sua terra dove ha vissuto da sempre come in un vivaio sicuro e che per bisogno è costretto a lasciarla per andare a vivere in un paese lontano tanto diverso dal suo! Forse il legame con la propria terra si rafforza e giorno dopo giorno si lavora, si fatica incessantemente per tener salde le proprie radici, per rafforzare il filo della speranza, per rabbonire il desiderio di lasciare tutto, anche la ricchezza e tornare. La vita dell'emigrante è una lotta continua contro la nostalgia e l'isolamento, contro la solitudine amara non compensata dall'agiatezza, contro il desiderio di sentirsi chiamare per nome e di ascoltare la familiare cadenza della propria lingua, contro la disperazione di non vedersi riflesso negli occhi dell'altro. Perché tanti sacrifici e tante umiliazioni? Da dove viene tutto questo coraggio agli umili mansueti contadini, semplici zappaterra del nostro sud? La risposta potrebbe essere una sola: il bisogno, ma non è tutto. La nostra gente è forte e sana e potrebbe anche sopportare disagi e privazioni. Ma dal bisogno si parte per giungere a motivi ben più alti come la dignità dell'uomo e il riscatto sociale. Il bisogno fa piegare la testa, umilia, avvilisce, conferma servilismo e schiavitù contro la propria volontà. Sganciarsi dalla miseria significa acquisire libertà, libertà di pensare e di desiderare, libertà di avere quanto ognuno ha diritto di avere. E allora i sacrifici che contano? L'importante è rivalutarsi e sentire la propria dignità al pari della dignità di tutti. Nel caso di Antonuccio, punto di riferimento della sua vita di sradicato era la sua casa. Senza quella casa meravigliosa che racchiudeva i suoi sentimenti, i suoi desideri, le sue aspettative, la vita all'estero non avrebbe avuto senso, sarebbe stata assurda, come purtroppo, era assurda quella donna nordica, bionda e slavata accanto a lui. Uscimmo dalla casa, ognuno con i suoi pensieri e le sue meditazioni. In quel momento sul marciapiede antistante, proprio accanto al cancello due operai del comune stavano installando un contenitore di rifiuti. - No, questo proprio no! Antonuccio si avvicinò agitatissimo e discusse animatamente con gli operai. Fu una colluttazione vera e propria. Gli operai dovevano eseguire gli ordini, ma quella era la sua casa e nessuno doveva permettersi di contaminarla con simili indecenze. Il giorno dopo il contenitore non c'era più, ma la casa dei sogni aveva nuovamente le finestre sbarrate. Antonuccio era nuovamente partito; ma il suo cuore era rimasto fra quelle mura che gli davano la forza di vivere in terra straniera.

Tratto da "Stralci degli anni miei" di: Angiolino Cotardo




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